martedì 11 febbraio 2025

THE BRUTALIST



titolo originale: THE BRUTALIST (USA, 2024)
regia: BRADY CORBET
sceneggiatura: BRADY CORBET, MONA FASTVOLD
cast: ADRIEN BRODY, GUY PEARCE, FELICITY JONES, RAFFEY CASSIDY, JOE ALWYN, STACY MARTIN, ALESSANDRO NIVOLA
durata: 215 minuti
giudizio: 



Trent'anni di vita di Laszlo Toth (dal 1950 al 1980), architetto ebreo ungherese sfuggito all'Olocausto e rifugiatosi negli Stati Uniti per ricominciare daccapo insieme alla moglie e alla figlia. Ridotto in miseria, incontrerà il ricco industriale Harry Van Buren, uomo megalomane, eccentrico e pericoloso, che gli commissionerà un'opera ciclopica destinata a futura memoria. Ma l'ambizioso progetto, tra mille vicissitudini, non vedrà mai la fine causando violente liti tra i due uomini, che tuttavia resteranno sempre indissolubilmente legati l'uno con l'altro...




"Béton brut"
, ovvero cemento a vista. E' questa l'etimologia del termine  Brutalismo, coniata dal francese Le Corbusier e significante un tipo di architettura essenziale, scarna, tesa a mettere in risalto l'importanza storica e sociale della costruzione rispetto all'estetica della costruzione stessa. Brutalismo era sinonimo di solidarietà e impegno civico, e non a caso tale corrente architettonica nacque nell'immediato dopoguerra, quando c'era di ricostruire dalle macerie e non pareva etico addentrarsi in progetti svolazzanti e visivamente frivoli. Tuttavia il Brutalismo ebbe vita breve, così come la memoria storica dell'uomo moderno: molti di questi edifici, considerati in massima parte ecomostri inguardabili e fatiscenti, furono ben presto destinati all'abbandono, come simboli dolenti di un Futuro più giusto e più equo nelle intenzioni ma impossibile da materializzarsi, poichè raso al suolo dal capitalismo...

Ed è proprio da qui che trae spunto The Brutalist, l'ultimo (splendido) film di Brady Corbet, che adegua l'utopia brutalista alla disillusione degli immigrati che negli anni '50 abbandonavano la vecchia Europa, devastata dalla guerra, per inseguire la chimera del Sogno Americano. Lo stesso sogno in cui crede il protagonista Laszlo Toth (un magnifico Adrien Brody), architetto ebreo ungherese formatosi alla Bauhaus e sfuggito miracolosamente ai rastrellamenti di Hitler, che sale sul primo piroscafo per New York in mezzo a una folla di disperati come lui in cerca della terra promessa. Ma una volta arrivato a Ellis Island la prima immagine dell'America che gli si pone davanti dice già tutto: una Statua della Libertà capovolta, appena intravista dal boccaporto della nave, tra le urla inconsulte dei poveracci ammassati nella stiva e il rollìo nauseante del piroscafo: un' incipit ansiogeno, claustrofobico, disorientante, che già dà l'idea di tutto quello che vedremo dopo...

The Brutalist è un film epico, nel senso letterale del termine, che ristabilisce le distanze con il grande cinema. E' un film monumentale, smisurato, che ricorda i grandi kolossal del passato e a cui si ispira con orgoglio e deferenza. Dura circa tre ore e mezza (diviso in due parti, con un prologo e un epilogo, nonchè con un intervallo di quindici minuti voluto dal regista con tanto di countdown su un'immagine fissa), ed è girato su pellicola in un anacronistico formato Vistavision (la risposta, all'epoca, della Paramount al Cinemascope della Fox), proprio per omaggiare filologicamente il cinema coevo e far immergere lo spettatore nella realtà della storia che racconta.

Questo approccio ambizioso serve a Corbet anche per scavare a fondo nella psicologia dei personaggi e mettere a confronto la differenza stridente tra la condizione degli immigrati e le storture del capitalismo insite nell' American Dream: Toth se ne accorge un attimo dopo aver messo piede nel Nuovomondo, quando lui e suo cugino che lo ospita vengono ingaggiati dal ricco industriale Harry Van Buren (un diabolico, perfido Guy Pearce) per rinnovare la libreria del suo studio. Il magnate dapprima rifiuta lo stile modernista di Toth e lo caccia in malo modo, rifiutandosi di pagare il lavoro e riducendolo in miseria. Ma in seguito, dopo aver scoperto dalle riviste di settore che Toth è un architetto famoso, lo richiama per commissionargli un'impresa tanto ciclopica quanto folle: costruire un enorme mausoleo in nome della madre scomparsa che dovrà servire anche come centro culturale, sociale e religioso, e che soprattutto dovrà essere così imponente da passare alla storia...


Il progetto consentirà  a Toth di ricongiungersi finalmente con la moglie Erzsebet (Felicity Jones, nel miglior ruolo della sua carriera), inizialmente rimasta in Ungheria e costretta in sedia a rotelle a causa degli stenti patiti durante la guerra, e con la figlia autistica Zsofia (Raffey Cassidy, sempre più brava e inquietante), ma lo renderà anche completamente succube dei soldi e soprattutto dei capricci di Van Buren, le cui divergenze artistiche sulla costruzione dell'opera mineranno irreversibilmente il fisico e la psiche dell'architetto, spingendolo sull'orlo della pazzia e rendendolo sempre più schiavo dell'oppio e della droga. Il rapporto malato tra i due uomini ha ricordato a molti critici, con ragione, il cinema bigger than life di P.T. Anderson, sia ne Il Petroliere che soprattutto in The Master, prendendolo come pietra di paragone per mostrarci un'America violenta, prevaricatrice, razzista, che sfrutta gli stranieri e gli immigrati per tornaconto personale e li getta via come scarpe vecchie una volta che non gli servono più.

The Brutalist per almeno 3/4 della sua durata è un film strepitoso, ambizioso, perfino eccessivo, e proprio per questo ancora più coraggioso e meritorio. Solo nell'ultima parte si sfalda un po', prendendo (forse volutamente) una piega eccessivamente cupa e arrivando in qualche caso al limite del buon gusto (come nella scena in assoluto più drammatica e sopra le righe, quella girata nelle cave di marmo di Carrara - che non intendo svelarvi - in cui la relazione tossica tra i due protagonisti arriverà al punto di non ritorno) ma che non intacca minimamente l'epicità della storia nè la morale di fondo: di come, cioè, la ricerca di una nuova Patria possa spesso avvenire a scapito dell'esclusione e della sofferenza altrui. Perchè il fine giustifica i mezzi, nella società ultracapitalista. E perchè, come spiega il protagonista a un passo dalla morte, "nella vita conta la méta, non il viaggio".
 

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