martedì 18 febbraio 2025

A COMPLETE UNKNOWN



titolo originale: A COMPLETE UNKNOWN (USA, 2024)
regia: JAMES MANGOLD
sceneggiatura: JAMES MANGOLD, JAY COCKS
cast: TIMOTHÉE CHALAMET, MONICA BARBARO, ELLE FANNING, EDWARD NORTON, SCOOT McNAIRY, BOYD HOLBROOK, DAN FOGLER
durata: 140 minuti
giudizio: 



New York, 1961. Il ventenne Robert Zimmerman si reca al capezzale del celebre cantante folk Woody Guthrie, restandone affascinato e facendosi "adottare" dalla scena musicale della Grande Mela insieme (tra i tanti) a Joan Baez e Johnny Cash. Una volta cambiato il suo nome in Bob Dylan, si lancerà (pur incompreso) verso la gloria eterna...    




Un titolo, un programma. E non è una battuta. Avendo (mea culpa) una conoscenza nulla più che basica del personaggio Bob Dylan, non posso certo dire alla fine dei 140 minuti di A complete unknown di saperne molto più rispetto a prima: nè dell'uomo, nè della sua musica, nè della sua influenza culturale. Non che questo debba essere per forza l'obiettivo finale di un film biografico, per carità, però allora permettetemi di esprimere una considerazione altrettanto basica ma (credo) di buon senso: se decidi di fare un film solo ed esclusivamente per gli addetti ai lavori e per i fan, allora è perfettamente inutile investire un budget di 70 milioni di dollari e farlo interpretare a uno degli attori più rampanti del momento... analogamente, se decidi invece di realizzare un film per il grande pubblico devi quantomeno renderlo appassionante e comprensibile, pena una noia mortale (come infatti è stato, almeno per quanto mi riguarda).

A complete unknown non è certo il primo film su Bob Dylan, e potete scommettere che non sarà nemmeno l'ultimo dato l'enorme spessore artistico e mediatico del popolare folksinger. Tuttavia, a differenza ad esempio del ben più riuscito I'm not there di Todd Haynes (2007), biopic alternativo e romanzato che faceva interpretare Dylan a ben sei attori diversi, ognuno espressione di una personalità del cantante, nella pellicola di James Mangold non c'è alcuno slancio formale, alcun guizzo, alcuna emozione: Mangold, che peraltro aveva già diretto un altro biopic anch'esso non proprio irresistibile su Johnny Cash, Quando l'amore brucia l'anima (2005), dove guardacaso il protagonista Joaquin Phoenix veniva eclissato, non per colpa sua ma da una sceneggiatura debole, dalla propria partner Reese Whiterspoon (che vinse anche il suo unico Oscar), concentra banalmente il film rispettando l'arco temporale della storia e offrendo allo spettatore una successione meccanica di accadimenti, alcuni iconici e altri no, quasi fossero pagine strappate a caso qua e là da un libro molto più completo (nella fattispecie Dylan  goes electric! di Elijah Wald, da cui gli sceneggiatori hanno tratto lo script) ma senza mai dare l'idea di un lavoro compiuto.  

Menomale che a salvare (almeno in parte) il film c'è un attore bravo e fascinoso come Timothée Chalamet, ormai incarnante a tutti gli effetti lo stereotipo mascolino della nostra epoca: fisico minuto ma atletico, sguardo da divo, viso malinconico e profondo malgrado una pettinatura forse troppo alla Lucio Battisti: una performance notevole la sua, capace rendere al meglio le mille sfaccettature caratteriali del menestrello del Minnesota, catturandone sia il borbottio confuso dell'intimità che la sua energia musicale, penetrante e diretta, indice di forte personalità. Il suo Dylan è un osservatore introverso che sa però spifferare la verità (spesso scomoda) quando viene messo all'angolo, oppure esaltarsi come nessun altro con una chitarra tra le mani. Questo è ciò che cattura l'attenzione ammirata di gente come Pete Seeger (un dimesso Edward Norton) e il "solito" Woody Guthrie (Scoot McNairy) che lo accolgono nel loro mondo (la scena newyorchese degli anni '60) esortandolo a liberare il proprio talento. Peccato però che, a differenza della carriera di Dylan, il film di Mangold non riesca mai a decollare restando confinato in un nozionismo quasi documentarista incapace di coinvolgere l'attenzione del pubblico (o almeno di quel pubblico che non è cresciuto a pane e Dylan)


Un film dallo stile classico, pacato, rispettoso del personaggio ma che proprio non ce la fa ad arrivare allo spettatore: siamo più dalle parti del Festival di Sanremo invece che del Premio Tenco (giusto per scomodare l'attualità), e come una qualsiasi canzonetta sanremese ti entra in testa solo nel momento in cui la ascolti salvo poi dimenticartene subito dopo. L'estro, la grandezza, la complessità e la poliedricità di un artista come Dylan avrebbero meritato a mio parere ben altra trattazione.

3 commenti:

  1. Un compitino noiosino. Come abbia fatto a ottenere tutte quelle nomination è un mistero!

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  2. Da quando ha rifiutato di andarsi a prendere il Nobel (trovando però tempo per fornire l'iban per il corrispettivo in bei soldini), Dylan mi sta abbastanza sulle scatole, mettici poi che anche Chalamet lo reggo a fatica.. ecco che il film ve lo lascio serenamente... ;)

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  3. In effetti è un film che si riesce a seguire molto meglio se si conosce l'universo dilaniato, a me comunque non è dispiaciuto affatto. Ho trovato Chalamet molto bravo.
    Buona serata. Un abbraccio
    Mauro

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