sabato 14 settembre 2024

VENEZIA 81: IL "PAGELLONE"



Quali conclusioni si possono trarre quando tra le "cose" migliori viste a un festival del cinema ci sono due serie televisive? (tra quelle che sono riuscito a vedere) Beh, la risposta più ovvia spesso è quella giusta: questa Venezia 81 non può certo considerarsi la migliore edizione degli ultimi anni... succede, del resto le annate cinematografiche sono un po' come il vino: ci sono le stagioni buone e quelle meno buone. Intendiamoci, le due serie in questione (M. Il figlio del secolo di Wright e Los años nuevos di Sorogoyen) sono veri gioielli, in senso assoluto, e dimostrano una volta di più quanto ormai sia labile il confine tra cinema e televisione (e quindi mi pare naturale, anzi necessario che una Mostra aperta alle nuove tendenze le ospiti nel programma), ma allo stesso tempo ci dicono anche quanto il Concorso veneziano di quest'anno sia stato tutt'altro che esaltante: per chi scrive, infatti, solo un titolo merita il massimo dei voti (lo splendido The Brutalist di Brady Corbet), seguito a debita distanza da un terzetto di ottimi film (tra cui Campo di battaglia di Gianni Amelio) e una serie infinita di film "medi" (tra cui, a mio giudizio, il Leone d'oro di Almodòvar) che possono considerarsi prodotti di discreta fattura ma non in grado di scaldare appieno i cuori della gente... questi sotto sono trenta titoli, di tutte le sezioni e in ordine di preferenza, tra tutti quelli che sono riuscito a vedere e che, nel bene e nel male, meritavano due righe di presentazione. Buona lettura e arrivederci al prossimo anno!



M. IL FIGLIO DEL SECOLO (di Joe Wright, Italia - SERIE) 

Di gran lunga la "cosa" più bella vista quest'anno (non solo alla Mostra). Faccio fatica a chiamarla "serie tv" perchè temo, purtroppo, che in televisione perderà molta della sua potenza visiva, che è enorme, e andrebbe vista su uno schermo più grande possibile. Un prodotto anticonvenzionale, espressivamente straordinario, clamorosamente avvincente, politicamente necessario: racconta in prima persona l'ascesa al potere di Mussolini (Luca Marinelli, impressionante nella mimica e nel linguaggio) con un taglio grottesco, esaltato, quasi pulp, per raccontare la tragedia di uomo ridicolo, mediocre, pavido, senza nessuna qualità, arrivato a un passo da conquistare il mondo. Tratta dai romanzi omonimi di Antonio Scurati. Imperdibile.



LOS AÑOS NUEVOS (di Rodrigo Sorogoyen, Spagna - SERIE) 

Ana e Oscar, trentenni, s'incontrano e s'innamorano la notte di Capodanno. Li seguiremo per i dieci capodanni successivi, guardando l'evolversi della loro storia e delle persone che stanno accanto a loro. Rodrigo Sorogoyen, dopo lo splendido e durissimo As Bestas, si cimenta in questi dieci, poetici episodi sull'amore e sulla giovinezza, in un'opera che ricorda molto Boyhood di Linklater: una riflessione sincera e tenerissima sul tempo che passa e sulla capacità di tenere insieme una relazione. Eterea ma profonda. Un piccolo gioiello che speriamo anche il grande pubblico possa ammirare il prima possibile.



THE BRUTALIST (di Brady Corbet, USA - CONCORSO) 

Ogni tanto capita di vedere film che ristabiliscono le distanze con il grande cinema, rimpicciolendo tutti gli altri. The Brutalist è un film monumentale, magniloquente, smisurato, che ricorda tanto cinema del passato: da Il Petroliere (come affresco d'epoca) a C'era una volta in America (come storia di uomini) fino a Via col vento (non solo per la durata - quasi quattro ore, intervallo compreso - ma per l'epicità del soggetto). La vita avventurosa e perigliosa di Laszlo Toth (Adrien Brody), valente architetto ungherese sfuggito alle deportazioni naziste e emigrato in America in quanto ebreo, diventa l'assunto per un'opera ambiziosa, forse a tratti eccessiva, eppure proprio per questo ancora più coraggiosa e meritoria. 


CAMPO DI BATTAGLIA (di Gianni Amelio, Italia - CONCORSO) 

Non un film "di guerra" ma un film "sulla guerra", come ama ripetere il regista: i combattimenti non si vedono mai ma la follia delle armi è presente in ogni momento, e le corsie dell'ospedale diventano la rappresentazione dell'insensatezza bellica e della stupidità umana, talmente accecata dal furor patrio da sottovalutare perfino la Spagnola, che arriverà a mietere vittime con la stessa facilità delle bombe. Bel film, rigoroso ma non didascalico, capace di scuotere le coscienze. Può diventare la risposta italiana a Niente di nuovo sul fronte occidentale. Ottime prove attoriali di Alessandro Borghi e Gabriel Montesi.


JOKER: FOLIE À DEUX (di Todd Phillips, USA - CONCORSO) 

Si comincia con un cartone stile "Looney Tunes", in omaggio alla Warner e all'epoca d'oro dei comics, ma si capisce subito che ci sarà poco da ridere: il percorso di Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), ormai ridotto a una larva umana cui è stata cancellata anche la dignità, assomiglia alla Passione laica di un Messia maledetto e destinato alla dissoluzione, tradito e deriso da tutti, anche da chi gli giura amore eterno per poi ripudiarlo una volta sulla croce. Film spiazzante e nerissimo: formalmente è un musical, di fatto è un tetro, dolente, ineluttabile dramma dove la rabbia del primo capitolo lascia il posto al dolore. Phoenix è di nuovo grandioso nella sua performance fisica e artistica, Lady Gaga fa quello che sa fare (canta). Il risultato è un'opera imperfetta ma incredibilmente affascinante, che scatena emozioni vere.


HAPPYEND (di Neo Sora, Giappone - ORIZZONTI) 

In un Giappone distopico, che aspetta con apprensione un terribile terremoto, due liceali mettono su uno scherzo goliardico verso il loro permalosissimo preside, che per tutta risposta instaura nella scuola un rigido regime autoritario azzerando completamente la privacy di ciascuno. Un' inquietante, significativa allegoria contro ogni totalitarismo, unita a una tensione drammatica fatta di lunghi silenzi e frasi smozzate. Uno dei migliori titoli della sezione Orizzonti, e anche uno dei pochi titoli nipponici presenti quest'anno al Lido.


LA STANZA ACCANTO (di Pedro Almodòvar, Spagna - CONCORSO) 

Il Leone d'oro di quest'anno è un film delicato, doloroso, che affronta senza pietismo e senza lacrime a comando un tema sempre difficile come quello dell'eutanasia. Siamo felici per Almodòvar, finalmente premiato a Venezia, ma va detto che La stanza accanto non è nemmeno lontanamente paragonabile agli ormai remoti e irriverenti capolavori del regista spagnolo. Trattasi infatti di una pellicola piuttosto pedissequa, infarcita qua e là da inutili pistolotti ecologisti per bocca di John Turturro, dove a farla da padrone è la splendida coppia di protagoniste (Tilda Swinton e Julianne Moore). Il film, al 90%, è fatto da loro. Con buona pace del grande Pedro.


NOI E LORO (di Delphine e Muriel Coulin, Francia - CONCORSO) 

Un padre vedovo, due figli adolescenti molto diversi tra loro. Uno sta per partire per Parigi per studiare nientemeno che alla Sorbona, l'altro invece è problematico, introverso, ribelle, e finisce per entrare nel giro di un gruppo di estrema destra, con conseguenze immaginabili... trama non originalissima per questo solido dramma urbano diretto dalle sorelle Coulin, ma quando a interpretare il padre c'è Vincent Lindon (premiato con la Coppa Volpi) il risultato assume tutt'altro spessore. Siamo dalle parti del cinema d'impegno (quello di Stephane Brizè) ma con maggiore attenzione all'aspetto umano.


THE ORDER (di Justin Kurzel, USA - CONCORSO) 

Pennsylvania, 1983. Una setta neonazista chiamata "The Order" compie una serie di efferate rapine allo scopo di finanziare un'insurrezione armata contro le Istituzioni americane. Basato su un (vero) romanzo distopico di William L. Price, The Order è la cronaca romanzata di un (vero) tentativo di colpo di stato, sventato solo dall'acume di un anonimo agente dell' FBI. Un potente action che ha il merito di far luce su un momento storico molto cupo per gli Stati Uniti, che allora come oggi sottovalutarono il peso politico dei movimenti di ultradestra (il testo in questione, The Turner Diarees, è stato adottato anche dagli ultras trupiani durante l'assalto a Capitol Hill nel 2021. Nulla particolarmente nuovo, ma la sceneggiatura è robusta e i protagonisti (Jude Law e Nicholas Hoult) tagliati per i loro ruoli.


VERMIGLIO (di Maura Delpero, Italia - CONCORSO) 

Vermiglio è un piccolo paese di montagna dove, nell'arco di quattro stagioni, si svolge una delicata vicenda famigliare la cui drammaticità fa da contrasto con gli incantevoli paesaggi del posto. L'unico film italiano premiato a Venezia è una storia d'amore rude e "selvaggia" collocata in un contesto bucolico che ricorda tanto il cinema di Ermanno Olmi: la regista Maura Delpero si affida a attori non professionisti e al dialetto locale per sottolineare la spontaneità dei gesti in un film lento e dilatato, che certamente intriga e si fa ammirare ma richiede anche una certa predisposizione all'ascolto da parte dello spettatore.


MARIA (di Pablo Larraìn, USA - CONCORSO) 
L'ultimo miglio della grande Maria Callas, donna potente, sola e devastata dal dolore. Un'opera algida, raffinata, dolente, crepuscolare, ma anche abbastanza fine a se stessa. Lo dico chiaro: preferisco Pablo Larraìn quando fa politica, quando gira film scomodi e impegnati come Post Mortem, NO, Il club, Jackie... e anche l'irriverente El Conde, in Concorso lo scorso anno. Maria mette in risalto le doti drammatiche della brava Angelina Jolie e la sceneggiatura dello specialista Steven Knight, ma non si èleva mai dal semplice biopic, seppure di ottima fattura (meravigliosi i costumi del nostro Massimo Cantini Parrini). Impeccabile, ma patinato.


DICIANNOVE (di Giovanni Tortorici, Italia - ORIZZONTI) 
Un'opera prima lineare ma allo stesso tempo impertinente, sfrontata, fresca, che racconta la formazione culturale e di vita di una matricola universitaria che esce per la prima volta da casa sua (Palermo) e si trasferisce a Londra (poco convinto) per poi rifugiarsi, brillante e introverso, tra i vicoli di Siena, città bellissima e cupa proprio come lui. un ritratto originale e veritiero della gioventù 2.0, irrequieta, insoddisfatta, e soprattutto poco capita dagli adulti. Occhio al protagonista, Manfredi Marini, bello e dolente come il ruolo impone.


AINDA ESTOU AQUI (di Walter Salles, Brasile - CONCORSO) 
Ogni anno a Venezia arriva in Concorso un film sudamericano, e ogni anno il film sudamericano parla di dittatura militare. Siamo in Brasile, nel 1970, e l'ex deputato laburista Marcelo Paiva (cui il film è dedicato) conduce una vita agiata nella sua villa di Copacabana insieme a moglie e figli. Il regime sembra lontanissimo ma un giorno, senza preavviso, l'esercito rompe l'idillio sequestrando il padrone di casa e gettando nella disperazione i familiari. Il film è simile un po' a tutti quelli che abbiamo già visto sul tema (da Garage Olimpo in poi), forse un tantino lungo nel finale, ma l'emozione e l'indignazione sono sincere. Fernanda Torres, grande attrice brasiliana, meritava la Coppa Volpi.


FAMILIAR TOUCH (di Sarah Friedland, USA - ORIZZONTI) 
Ben tre premi importanti (regìa, miglior opera prima e miglior attrice sezione Orizzonti) per questo interessante debutto della giovane regista ebreo-americana Sarah Friedland, che esplora in maniera intelligente il dramma della demenza senile e delle case di riposo negli Stati Uniti (ma il film ha comunque valenza universale). Grande prova d'attrice della veterana Kathleen Chalfant.




DIVA FUTURA (di Giulia L. Steigerwalt, Italia - CONCORSO) 
No, non è il Boogie Nights italiano, e nemmeno ha la pretesa di esserlo. Però Diva Futura è comunque un film da vedere: un'opera giovane, sbarazzina, viva, che racconta in chiave pop il difficile cammino verso l'emancipazione delle donne in un paese (ancora) troppo bigotto e maschiocentrico come il nostro. Bella colonna sonora, buone scelte di regia e sceneggiatura. E buone scelte anche di tutto il cast, compeso Castellitto jr. (chi se lo aspettava?)


WOLFS (di Jon Watts, USA - FUORI CONCORSO) 

Che cosa possiamo dire di Wolfs se non l'ovvio? Cinema di puro intrattenimento, senza pretese e senza prendersi sul serio. Puro relax, come dovrebbe essere. Ai festival servono anche questi film qua per alleggerire le visioni e fare notizia: George Clooney e Brad Pitt hanno monopolizzato il red carpet, dimostrandosi veri animali da palcoscenico e concedendosi al pubblico come nessun altro divo aveva fatto in precedenza. Due amici prima che due (grandi) attori, e la loro chimica si vede anche sullo schermo: il film è divertentissimo, in certe parti esilarante, specie quando i due scherzano sulla loro età avanzata...


MON INSÉPARABLE (di Anne-Sophie Bailly, Francia - ORIZZONTI) 

Mona (Laure Calamy, bravissima) è una madre single che ha cresciuto da sola il figlio Joel, disabile mentale che si è innamorato di una ragazza col suo stesso handicap, mettendola incinta... ovviamente la notizia sconvolge tutto il nucleo famigliare causando tensioni insostenibili. Mon inséparable è un melò sensibile e crudo allo stesso tempo, carico di dolore ma anche di speranza, che affronta temi complicati quali la malattia, le cure, la maternità con lodevole onestà intellettuale. Il film è acerbo, con qualche caduta di stile, ma sa toccare le corde giuste.


STRANGER EYES (di Yeu Siew Hua, Singapore - CONCORSO) 
Singapore, città-stato dove l'altissima densità di popolazione fa sì che ogni abitante sia per forza di cose "sorvegliato", squadrato, ripreso ogni giorno da migliaia di telecamere piazzate in ogni angolo di strada. In questo contesto pervasivo, le sorti di una giovane coppia si alternano tra lo sgomento per il rapimento della figlioletta e la rabbia verso un uomo disturbato che li stalkera tecnologicamente, pur mantenendosi sempre a debita distanza. Film non facile, radicale, quasi un thriller sul voyuerismo contemporaneo, con tanto di colpo di scena hitchcockiano nel finale. Ritmi lenti, ma inquietudine sempre sopra il livello di guardia.


LE MOHICAN 
(di Fredric Farrucci, Francia - ORIZZONTI EXTRA) 
Uno degli ultimi pastori della costa còrsa viene minacciato dalla mafia locale, che anela al suo terreno a strapiombo sul mare. Malgrado le pressioni lui non cederà, ingaggiando una folle guerra contro i malavitosi e aiutato solo dalla giovane nipote, che utilizzerà i social per imbastire una rete di protezione e solidarietà. Un buon western contemporaneo, "resistente", anarchico, tesissimo, che necessita di una buona dose di sospensione di incredulità ma che coinvolge dal primo fino all'ultimo istante. Film indubbiamente di genere, senza troppi gigionismi ma efficace.


LOVE 
(di Dag Johan Haugerud, Norvegia - CONCORSO) 
La storia di Marianne e Tòr, rispettivamente dottoressa e infermiere, entrambi sentimentalmente inquieti (lei etero, lui omosessuale) e restii agli amori convenzionali, ma sempre pronti ad avvicinarsi e aiutare il prossimo senza chiedere troppo in cambio. Discreto film norvegese che parla di amore e innamoramento in maniera sobria e onesta, con interpreti credibili. Forse un po' di minutaggio in meno non avrebbe fatto male, ma l'intento (una riflessione sui rapporti sociali di oggi) è assolutamente sincero.


QUEER 
(di Luca Guadagnino, Italia/USA - CONCORSO) 
Luca Guadagnino può davvero considerarsi il cineasta più indaffarato al mondo: due film l'anno da regista, almeno altrettanti come produttore più una miriade di progetti in standby... una bulimia creativa che non sempre porta ottimi risultati. Ne è la prova questo Queer, il suo film più personale e sentito, tratto dall'omonimo romanzo di Burroghs e giunto al Lido con la fama di film-scandalo per le ormai famose scene di sesso omosex tra Daniel Craig e Drew Starkey (che poi, come quasi sempre accade, sono in realtà molto meno "hot" di come ci vengono prospettate...). Pellicola noiosa, ripetitiva, che trasmette ben poco allo spettatore e non va mai oltre la famosa "cifra estetica" tipica del regista sicliano, che però in questo da sola non è proprio sufficiente. Quando la montagna partorisce il topolino. Peccato.


HARVEST (di Athina Rachel Tsangari, GB - CONCORSO) 

Ecco qua il classico "mattone" della Mostra. Il film più pesante, dormifero, stroncapalpebre in assoluto. Un'opera metaforica (anche troppo), compassata (anche troppo), un western atipico (anche troppo) che racconta il passaggio epocale dall'economia agricola alla rivoluzione industriale. Il protagonista Caleb Landry Jones, quello di Dogman, ce la mette tutta per conferire statura al personaggio (riuscendoci anche) ma la sua interpretazione non basta a salvare un film davvero troppo indigesto e compassato. 


MALDOROR (di Fabrice du Welz, Belgio - FUORI CONCORSO) 

Un poliziesco rude, senza fronzoli, ispirato ai fatti reali che sconvolsero il Belgio circa a metà degli anni '90. Ci viene raccontata la storia del cosiddetto "mostro di Marcinelle", un serial killer che rapiva, torturava e uccideva giovani ragazze inermi riuscendo sempre a farla franca grazie alla connivenza e al lassismo di "talpe" infiltrate nelle forze dell'ordine. Film che vorrebbe ispirarsi a Seven di David Fincher ma che è lontanissimo per stile, genialità ed efficacia, e di cui la rozzezza di fondo dà solo fastidio. Durata esagerata (due ore e mezza), ripetitivo, Maldoror si riavvolge più volte su se stesso prima di giungere al finale più scontato possibile. Vedere per credere.


BROKEN RAGE  
(di Takeshi Kitano, Giappone - FUORI CONCORSO) 
Tutti vogliamo bene a Takeshi Kitano, cineasta di culto amato da legioni di fan entusiasti (che a Venezia si sono fatti sentire) e pronti a idolatrarlo qualsiasi cosa faccia... perfino una sciocchezzuola simpatica come questo Broken Rage, appena 62 minuti di film divisi in due capitoli che raccontano (o dovrebbero raccontare) la stessa storia (di gangster, l'ennesima) sia dal punto di vista drammatico che parodistico. L'idea, peraltro non nuovissima, può anche andare, ma il buon Kitano riesce nell'impresa di rendere comica anche la parte drammatica e, per quanto si rida di gusto, onestamente non si capisce il senso di questo giochino inutile che, davvero, può accontentare solo gli appassionati...


IDDU (di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Italia - CONCORSO) 

L'idea poteva anche essere buona: immaginare la vita da latitante del superboss Matteo Messina Denaro (interpretato da Elio Germano), uomo potente e temuto, il capo dei capi, l'inafferrabile, che malgrado il suo potere è però costretto a vivere come un recluso, nascosto in un misero appartamento e servendosi dei famosi "pizzini" per comunicare con l'esterno. Un giorno, in uno di questi pizzini c'è una disperata richiesta d'aiuto da parte di Catello Palumbo (Toni Servillo), ex padrino ormai caduto in disgrazia che ha voglia di rifarsi un nome... il film purtroppo non mantiene le promesse: il registro, a metà tra il sarcastico e il dramma, non mantiene le promesse e si affloscia subito nella banalità, malgrado un Servillo in gran forma che sproloquia battute fulminanti ("i libri ormai li leggono solo i carcerati..."


L'ORTO AMERICANO  
(di Pupi Avati, Italia - FUORI CONCORSO)   
C'era una volta Pupi Avati, un tempo regista (anche) di horror importanti che hanno fatto la storia del genere nel nostro paese (si pensi solo a La casa dalle finestre che ridono, cult assoluto). Peccato che siamo ormai nel 2024 e l' 86enne Avati non ha più la forza, l'ispirazione e forse nemmeno la possibilità di ripetersi con quello smalto: L'orto americano, oltre a essere girato con evidente economia di mezzi, è un modesto thriller processuale che non ha davvero niente di gotico nè di orrorifico, assomiglia piuttosto a un piatto sceneggiato televisivo cui nemmeno la patinata fotografia in bianco e nero riesce a restituire vigore.



LEURS ENFANTS APRES EUX  (di Ludovic e Zoran Boukherma, Francia - CONCORSO) 
Il racconto di formazione di due adolescenti nella Francia orientale, con parecchie lungaggini di troppo (la durata di 144 minuti è oggettivamente spropositata) e una visione abbastanza stereotipata della società. Unica luce la presenza del giovane Paul Kircher, talentuoso figlio d'arte (sua mamma è Irène Jacob) e vincitore meritevole del Premio Marcello Mastroianni come miglior attore emergente.


APRIL
(di Dea Kulumbegashvili, Georgia - CONCORSO) 
Da molti indicato alla vigilia come uno dei possibili candidati al Leone d'oro, April è stata la delusione più cocente del concorso: film vittima del suo manierismo, di una lentezza esasperante, indicibile, oltre che di un rigore stilistico portato all'estremo che tuttavia non riesce ad evitare uno stucchevole eccesso di retorica. Il tema era importante (la difficoltà di abortire) così come il contesto ambientale dove si svolge il film (la Georgia post comunista), ma davvero la noia e la pesantezza la fanno da padroni. Peccato, perchè il film precedente della regista, Beginning, era di tutt'altro spessore. Ma confermarsi è difficile per tutti.


BABYGIRL
(di Halina Reijn, USA - CONCORSO) 
Malgrado la Coppa Volpi regalatale dalla Huppert, fa molta, molta tristezza vedere la 57enne Nicole Kidman, ormai irriconoscibile e devastata dalla chirurgia, in questa sciocchezzuola pseudo-erotica che scade ben presto nel ridicolo scimmiottando fuori tempo massimo le famigerate "50 sfumature"... classico film acchiappa-media messo in Concorso (in Concorso!!) solo per far parlare di sè e della Mostra, nonchè sostenere indegnamente le "quote rosa" alla regìa (mi rifiuto di pensare che non ci fossero altre registe donne che sarebbero potute essere in gara con una pellicola ben più dignitosa di questa). "Tutte hanno diritto all'orgasmo" sarà la battuta di lancio del film (sic!)

4 commenti:

  1. Un lavoro immenso come al solito. Grazie per questa utilissima guida.
    Buon weekend
    Mauro

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  2. Spendida guida! Sono sicura che tanti film meriteranno comunque la visione!

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    Risposte
    1. Grazie <3
      La speranza è che il più possibile trovino una distribuzione adeguata e arrivino in sala

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