titolo originale: ZAMORA (ITALIA, 2024)
regia: NERI MARCORE'
sceneggiatura: NERI MARCORE', MAURIZIO CAREDDU, PAOLA MAMMINI, ALESSANDRO ROSSI
cast: ALBERTO PARADOSSI, NERI MARCORE', MARTA GASTINI, ANNA FERRAIOLI RAVEL, GIOVANNI STORTI, WALTER LEONARDI, ANTONIO CATANIA
durata: 100 minuti
giudizio: ★★★☆☆
Milano, 1963. Il timido Walter Vismara, ragioniere di provincia, viene assunto come contabile in una grande azienda meneghina. Dopo l'impatto iniziale il ragazzo si ambienta nella metropoli e riesce anche a innamorarsi di una bella collega d'ufficio. Tutto andrebbe a gonfie vele se non fosse che il titolare dell'azienda ha la fissa per il calcio e obbliga i dipendenti a giocare a pallone. A Walter, che odia lo sport, non resta che improvvisarsi portiere: verrà soprannominato ironicamente Zamora, come il grande portiere spagnolo degli anni '30...
Non avevo alcun dubbio che Zamora, il primo film da regista di Neri Marcorè, rispecchiasse esattamente la personalità del suo autore: una comicità garbata, malinconica, sottile, mai volgare, per nulla sguaiata, come si conviene a un film che ha soprattutto il merito di non fare mai il passo più lungo della gamba. Zamora è infatti un'opera semplice ma ben realizzata, umile ma non superficiale, non certo ambiziosa ma nemmeno pretenziosa come tanto cinema italiano recente...
Un esordio certo non trascendentale come struttura ma assolutamente godibile nella sua essenzialità: per tutta la prima parte (anzi, diciamo per almeno due terzi) Zamora riesce a coinvolgere e trasportare lo spettatore in un mondo (calcistico, ma non solo) che ormai da tempo non esiste più ma vorremmo tanto che tornasse: quello di un calcio e di un Paese meno ricco ma più umano, dove ogni cosa assume la giusta dimensione. Solo nella mezz'ora finale il film cede un pochino alla retorica, risolvendosi in un epilogo abbastanza scontato, ma lo trovo comunque un peccato veniale, che non appesantisce affatto la visione e non inficia quanto di buono visto fino allora.
Un esordio certo non trascendentale come struttura ma assolutamente godibile nella sua essenzialità: per tutta la prima parte (anzi, diciamo per almeno due terzi) Zamora riesce a coinvolgere e trasportare lo spettatore in un mondo (calcistico, ma non solo) che ormai da tempo non esiste più ma vorremmo tanto che tornasse: quello di un calcio e di un Paese meno ricco ma più umano, dove ogni cosa assume la giusta dimensione. Solo nella mezz'ora finale il film cede un pochino alla retorica, risolvendosi in un epilogo abbastanza scontato, ma lo trovo comunque un peccato veniale, che non appesantisce affatto la visione e non inficia quanto di buono visto fino allora.
Tratto dal romanzo omonimo del compianto Roberto Perrone, cui il film è dedicato, adattato dallo stesso Marcorè insieme a Maurizio Careddu, Paola Mammini e Alessandro Rossi, Zamora si fa apprezzare prima di tutto per la sorprendente ricostruzione storica dell'epoca, ricreando una Milano anni '60 umida e nottambula, affascinante ma anche ostile, elegante ma anche distaccata, riscaldata però dal calore della sua gente: quello che ci colpisce è infatti l'umanità delle persone, degli ambienti, spesso scambiata per diffidenza ma che rispecchia pienamente il carattere chiuso eppure generoso dei suoi abitanti, tipico della città meneghina e in senso lato del Nord Italia (lo dico con cognizione di causa, dato che il sottoscritto al Nord ci ha vissuto davvero per anni).
Non credo di scoprire nulla di nuovo dicendo che Marcorè per il suo debutto da regista paga un tributo evidente a Il posto di Ermanno Olmi (1961), piccolo, indimenticabile capolavoro che tracciava con bonario candore l' "avventura" di un giovane impiegato sradicato dal suo paesello e trapiantato nella metropoli per lavorare come contabile in una grande azienda: il film di Olmi descriveva lo straniamento, il disagio e il timido approccio di un ragazzo di periferia a una dimensione del tutto nuova e smisurata per il suo modesto orizzonte, riuscendo perfino a coltivare il primo vero amore della sua vita invaghendosi di una bella collega di lavoro... in questo, Zamora ne ricalca fedelmente la trama seguendo le orme del giovane Walter Wismara (Alberto Paradossi), aspirante contabile costretto a improvvisarsi portiere per compiacere il suo datore di lavoro, l'ineffabile Cavalier Tosetto (Giovanni Storti), tanto fissato per il "folber" (il football, in milanese) da minacciare il licenziamento per chi non si presenta alla partitella del giovedì sera tra scapoli e ammogliati...
Non credo di scoprire nulla di nuovo dicendo che Marcorè per il suo debutto da regista paga un tributo evidente a Il posto di Ermanno Olmi (1961), piccolo, indimenticabile capolavoro che tracciava con bonario candore l' "avventura" di un giovane impiegato sradicato dal suo paesello e trapiantato nella metropoli per lavorare come contabile in una grande azienda: il film di Olmi descriveva lo straniamento, il disagio e il timido approccio di un ragazzo di periferia a una dimensione del tutto nuova e smisurata per il suo modesto orizzonte, riuscendo perfino a coltivare il primo vero amore della sua vita invaghendosi di una bella collega di lavoro... in questo, Zamora ne ricalca fedelmente la trama seguendo le orme del giovane Walter Wismara (Alberto Paradossi), aspirante contabile costretto a improvvisarsi portiere per compiacere il suo datore di lavoro, l'ineffabile Cavalier Tosetto (Giovanni Storti), tanto fissato per il "folber" (il football, in milanese) da minacciare il licenziamento per chi non si presenta alla partitella del giovedì sera tra scapoli e ammogliati...
Detta così, mi rendo conto, Zamora potrebbe sembrare più simile a Fantozzi che a Olmi, e del resto le similitudini ci sono eccome: la Megaditta simboleggiante un mondo dentro un altro mondo, le partite di calcio giocate in mezzo alla nebbia, le scaramucce tra colleghi di lavoro... ma come sostiene lo stesso Marcorè "quella di Fantozzi era un'estremizzazione della realtà, un grido di ribellione... Zamora è invece la favola di un ragazzo catapultato suo malgrado nell'Italia del benessere". E non solo, aggiungo io: Zamora è un tenero romanzo di formazione che rievoca un Paese felice, meno egoista, oltre che un nostalgico omaggio al calcio di una volta, quando i giocatori non erano milionari e potevi incontrarli al bar dello stadio dopo la partita. Il film è piacevole, delicato, lento ma non noioso: il ritmo non proprio travolgente ricalca l'epoca della narrazione, quando la vita era meno stressante e più attenta ai piccoli piaceri, una specie di "elogio della lentezza" ben scandito dai tempi della pellicola.
Il resto, manco a dirlo, lo fanno gli attori (con nota di merito a Marcorè per aver saputo dirigere un bel cast affiatato e eterogeneo): Alberto Paradossi appare un po' legnoso nei movimenti, ma d'altra parte la sua è la goffaggine richiesta dal ruolo. Azzeccati anche i camei di tanti personaggi illustri e "ospiti" per l'occasione, da Ale e Franz a Marino Bartoletti, da Davide Ferrario al già citato Giovanni Storti e al suo "compare" Giacomo Poretti, fino alle brave interpreti femminili: Anna Ferraioli Ravel (già vista in Un altro Ferragosto di Virzì) si dimostra più che a suo agio, lei che certo non ha origini "nordiche", mentre Marta Gastini ha il viso, i lineamenti, il portamento e l'eleganza delle belle ragazze di città degli anni '60. E poi c'è ovviamente Marcorè stesso, che si ritaglia la parte di Alberto Cavazzoni, immaginario ex grande portiere del passato, che nel fisico e nel trucco ricorda parecchio l'indimenticato Ricky Albertosi. Tutti alle prese con il fiero dialetto meneghino, che finalmente (possiamo dirlo) ci consente di disintossicarci un po' dall'onnipresente calata romanocentrica dell'ormai stragrande maggioranza dei film di casa nostra.
Il resto, manco a dirlo, lo fanno gli attori (con nota di merito a Marcorè per aver saputo dirigere un bel cast affiatato e eterogeneo): Alberto Paradossi appare un po' legnoso nei movimenti, ma d'altra parte la sua è la goffaggine richiesta dal ruolo. Azzeccati anche i camei di tanti personaggi illustri e "ospiti" per l'occasione, da Ale e Franz a Marino Bartoletti, da Davide Ferrario al già citato Giovanni Storti e al suo "compare" Giacomo Poretti, fino alle brave interpreti femminili: Anna Ferraioli Ravel (già vista in Un altro Ferragosto di Virzì) si dimostra più che a suo agio, lei che certo non ha origini "nordiche", mentre Marta Gastini ha il viso, i lineamenti, il portamento e l'eleganza delle belle ragazze di città degli anni '60. E poi c'è ovviamente Marcorè stesso, che si ritaglia la parte di Alberto Cavazzoni, immaginario ex grande portiere del passato, che nel fisico e nel trucco ricorda parecchio l'indimenticato Ricky Albertosi. Tutti alle prese con il fiero dialetto meneghino, che finalmente (possiamo dirlo) ci consente di disintossicarci un po' dall'onnipresente calata romanocentrica dell'ormai stragrande maggioranza dei film di casa nostra.
Proprio caruccio, Marcorè un signore anche dietro la cinepresa. A me questo suo personaggio così timido e insicuro ha ricordato molto Il cuore altrove di Pupi Avati. Mi è piaciuto, sono uscita soddisfatta :)
RispondiEliminaOttima osservazione! In effetti "Il cuore altrove" fu già una specie di testamento artistico di Marcorè, quello che lanciò il suo essere "personaggio"
EliminaFinalmente un film sul calcio divertente ma non banale, per niente retorico. Marcorè promosso a pieni voti
RispondiEliminaPiù che un film "sul calcio" in senso stretto è un film su un'epoca, una città, un mondo che ormai appartiene al passato. Il calcio è il contenitore della storia, lo strumento per trattare l'argomento. Non me la sentirei di classificarlo come "film sportivo"...
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