titolo originale: FLAG DAY (USA, 2021)
regia: SEAN PENN
sceneggiatura: JEZ e JOHN HENRY BUTTERWORTH
cast: DYLAN PENN, SEAN PENN, KATHERIN WINNICK, HOPPER JACK PENN, JOSH BROLIN
durata: 109 minuti
giudizio: ★☆☆☆☆
Travolto dai debiti, il truffatore John Vogel abbandona ripetutamente casa e famiglia per provare ogni volta a rifarsi una vita altrove, senza però aver fatto i conti con la figlia primogenita Jennifer che, al pari della polizia e dei creditori, lo inseguirà in capo al mondo nonostante tutto...
Tranquilli, non sto scrivendo un articolo di gossip. Era giusto per puntualizzare quanto Sean Penn fosse desideroso di dirigere questo film, forse pensando che in questo modo avrebbe avuto vita facile nel lanciare nel giro che conta la bellissima figlia Dylan (quasi un clone di sua mamma, Robin Wright, e con viso e forme alla Scarlett Johansson, ma ben più slanciata) protagonista assoluta di un film clamorosamente sbagliato, indecentemente passato in concorso al Festival di Cannes e con esiti disastrosi al botteghino americano. Viene da pensare che il Penn regista sia molto simile al Penn privato: un uomo capace di mettere in scena opere rigorose e stringenti (come l'ottimo La promessa, ma anche The Crossing Guard) per poi invece lasciarsi prendere la mano dal sensazionalismo melodrammatico spicciolo degli ultimi tempi (e se Into the Wild era ancora guardabile, già con The last face si faceva prendere un po' troppo la mano). Di base c'è il fatto che non basta essere grandi attori per dirigere buoni film: lo puoi fare se hai sceneggiature già belle di suo, come quelle citate, ma quando il copione fa acqua si rischia il naufragio.
Cosa c'è che non va in Una vita in fuga? In primo luogo, perlappunto, una storia vera ma banalissima, prevedibile, piena di luoghi comuni che Hollywood ingoia da sempre e getta nel tritatutto (padre bello e dannato con figlia amorevole al seguito, il rapporto tra genitori difficili e figli complessati, l'amore che vince su tutto - carcere compreso - per non parlare del maschilismo strisciante che vede la figura del marito "pasticcione" spiccare comunque su una moglie depressa e ubriacona cui, a differenza del coniuge, non viene mai perdonato nulla). Ma è soprattutto la costruzione del film ad essere irricevibile: pieno di un manierismo insopportabile (con infinite inquadrature "alla Malick" sui tramonti e i grandi spazi), intervallato, ma sarebbe meglio dire sovrastato da una colonna sonora opprimente (con musiche originali - tra le altre - di Eddie Vedder e Cat Power, belle ma inappropriate), intriso di un nazionalismo davvero pacchiano che dal democratico Penn non era lecito aspettarsi: chissà cosa si sarebbe detto se questa apoteosi a stelle e strisce (a cominciare dal titolo originale: Flag Day, ovvero il "giorno della bandiera") l'avessero diretta Clint Eastwood o Mel Gibson... già vedo i titoli dei giornali sbraitare accuse di fascismo/nazismo...
Ma Una vita in fuga non è un film fascista, è solo un brutto film che il suo regista non ha saputo rendere proprio, lasciandosi andare al sentimentalismo e al patriottismo ingenuo tipicamente americano. Penn si prende per sè il ruolo del padre truffatore ma dal cuore d'oro (esibendo innumerevoli tagli di capelli, uno più improbabile dell'altro) e lasciando la scena alla primogenita Dylan, che è l'unica a salvarsi dal disastro: ex modella, arrivata alla notorietà a trent'anni suonati, rende un'interpretazione sofferta e credibile (di sicuro ben più di quella del padre) ma non sufficiente a salvare una pellicola scontata, artefatta, sconclusionata, innaturale e poco credibile dall'inizio alla fine. Un film con poche idee e confuse, sulla falsariga del Penn attivista "di sinistra", che sostiene Obama e Chavez ma non esita a catapultarsi a Kiev per fomentare la resistenza ucraina... chissà se riuscirà mai a rimettere ordine nella propria testa. Davvero, chissà.
Diciamo pure che il buon Sean Penn ultimamente mi pare diventato un tantino fascistello. Come si cambia, diceva la canzone!
RispondiEliminaEh, sì. Le sue "gitarelle" a Kiev non le ho digerire... ma non va di parlare qui sopra di politica spicciola
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