sabato 16 giugno 2018
LA STANZA DELLE MERAVIGLIE
titolo originale: WONDERSTRUCK (Usa, 2017)
regia: TODD HAYNES
sceneggiatura: BRIAN SELZNICK
durata: 117 minuti
giudizio: ★★★☆☆
Manieristico. E' l'aggettivo che più si addice a Todd Haynes, croce e delizia di tutti i suoi film. E La stanza delle meraviglie, presentato a Cannes 2017 ma arrivato solo adesso nelle sale italiane, non si sottrae al dilemma: è il primo film che il regista americano dedica dichiaratamente ai ragazzi, ma le caratteristiche sono speculari a quelle dell'intera sua produzione: classe immensa nel descrivere e far immedesimare lo spettatore in epoche diverse, narrazione invece alquanto dentro gli schemi e non sempre efficace.
Ma andiamo con ordine, partendo dall'inizio: un bambino è inseguito in piena notte da un branco di lupi, in mezzo alla neve, impaurito e solo. E' una specie di dichiarazione d'intenti in quello che sarà in primo luogo un film sulla solitudine e l'accettazione, visto attraverso gli sguardi di due adolescenti vissuti in anni diversi ma accomunati dagli stessi problemi, primo fra tutti la paura dell'abbandono, dell'isolamento provocato dalla malattia (di parleremo tra un attimo), causa principale della loro "diversità" e del sottile razzismo di cui sono vittime, seppur appartenendo a strati sociali tutto sommato agiati (morale: il razzismo non dipende nè dal portafoglio nè dal periodo storico, ma unicamente dalla ristrettezza mentale delle persone).
Ben (Oakes Fegley) e Rose (Millicent Simmonds) sono due dodicenni le cui vicende, separate dalla storia, si intrecceranno per tutto il film per ricongiungersi (non vi dico come) in un finale piuttosto sbrigativo ma comunque emozionante: Rose, sordomuta dalla nascita, vive nella New York degli anni '20, in una grande casa ricca e vuota, soprattutto dell'affetto famigliare. Il padre è severo ed assente, la madre è scappata a Broadway per fare l'attrice, anteponendo la carriera artistica a quella di genitore. La piccola la va a vedere spesso al cinema, illudendosi di averla accanto a sè, fino al momento in cui deciderà di scappare di casa per andare a cercarla...
Ben, suo coetaneo, trascorre invece la sua adolescenza nel Minnesota degli anni '70, segnato dall'abbandono del padre (mai conosciuto) e dalla morte prematura della giovane madre (Michelle Williams, che compare in un cameo). Colpito da un fulmine durante un temporale, che lo renderà anch'esso sordo (ma capace di parlare) il piccolo non esiterà a saltare su un autobus e dirigersi nella Grande Mela alla ricerca di suo babbo: unico indizio, un segnalibro ritrovato dentro una vecchia scatola di ricordi, che lo condurrà dentro il Museo di Storia Naturale, vera e propria stanza delle meraviglie, dove il sogno può quantomeno diventare speranza.
Il film, neanche a dirlo, è visivamente affascinante: le due storie parallele si alternano con grande mestiere tra bianco e nero e colore, ricostruendo una New York malinconica e suadente, crocevia del mondo. Il mutismo dei due giovani protagonisti dà invece la possibilità al regista di omaggiare un cinema antico e nobile (e qui la memoria non può non andare a The Artist di Hazanavicius) impreziosito dall'uso sapiente della colonna sonora (soavemente classica per Rose, energicamente funky per Ben) e, principalmente, dall'immensa classe di un'attrice immensa come Julianne Moore (ormai diva-feticcio di Todd Haynes) che fa da anello di congiunzione tra i destini incrociati dei due ragazzi.
Ma, nonostante in più di una sequenza si resti davvero "stupefatti" (come recita il titolo originale, Wonderstruck), a mancare, a lasciare qualcosa di vuoto, è soprattutto la trama: esattamente come nel film precedente, Carol, anche qui la sceneggiatura (affidata stavolta a Brian Selznick, autore del romanzo omonimo) si rivela piuttosto debole e schematica, finendo per esaurirsi dopo pochi passaggi e diventando ben presto prevedibile e ripetitiva. Un peccato per la qualità complessiva dell'opera, che non riesce a decollare e si mantiene, pur su degnissimi livelli, nel limbo di un'operazione fascinosa ma incompiuta, in un certo qual modo ruffiana, che ammicca a Hugo Cabret di Scorsese ma senza mai raggiungere la stessa potenza espressiva e morale. La sensazione è che a Haynes interessi più la forma della sostanza, un po' come in quei ristoranti super-stellati dove fotografi i piatti ma poi esci che hai ancora fame...
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Peccato che sia quasi impossibile vederlo, almeno per chi non vive nelle grandi città. Eppure avrebbe tutti i requisiti per piacere al pubblico. Spero di recuperarlo in qualche arena estiva.
RispondiEliminaBuona serata e buon weelìkend.
Mauro
Mah... su questo caro Mauro non giurerei: si tratta di un film per buona parte muto, con largo uso del bianco e nero e una colonna sonora decisamaente retrò. Non so quanto appeal potrebbe avere sul grande pubblico, nonostante stiamo parlando di un'opera per ragazzi. Il fatto che esca solo adesso è certamente significativo.
Eliminain effetti sì...
EliminaA me non è affatto dispiaciuto, nemmeno dal punto di vista della sceneggiatura. Le due storie si incrociano bene e rendono bene l'idea delle loro epoche che, come hai scritto te, non è che erano poi così diverse dal nostro presente. Sì, forse è manieristico e non scalda del tutto il cuore, ma è comunque cinema di livello.
RispondiEliminaLe due storie sono ben raccontate ma lo spunto di partenza è davvero esile e si esaurisce subito, almeno per me... fermo restando, come ho scritto, la maestria di Todd Haynes nel ricreare atmosfere passate. Ma il punto è proprio quello che dici te: molta forma, ma il film non emoziona praticamente mai.
Elimina