(Taxis)
di Jafar Panahi (Iran, 2015)
con Jafar Panahi
durata: 82 minuti
★★★★☆
Credo che lo sappiate tutti ma è sempre bene ripeterlo: Jafar Panahi, il più famoso regista iraniano, da ormai cinque anni non può uscire dal proprio paese né girare e produrre film, reo di essere considerato oppositore del regime islamico e perciò condannato al silenzio. Ne consegue che il suo ultimo film, Taxi Teheran, premiato con l'Orso d'oro all'ultimo Festival di Berlino, è stato girato in clandestinità e con mezzi di fortuna, coinvolgendo persone fidate e sfruttando per quanto possibile la complicità di conoscenze internazionali che ne hanno permesso l'uscita.
Dico questo non per influenzare il vostro giudizio (non c'è bisogno: il film, uscito a fine agosto, è ormai sparito dalle sale) ma perché questa lavorazione così avventurosa è parte integrante e fondamentale di una pellicola bellissima proprio grazie alle particolari condizioni in cui è stata realizzata, e che le conferiscono un'immediatezza e una freschezza allo sguardo tipiche di un'opera che è non solo "di resistenza", ma di anche amore incondizionato verso il cinema inteso come bisogno irrinunciabile di un regista che a questa professione a dedicato, a volte anche rischiandola, la propria vita.
Girato totalmente (o quasi) dentro una macchina, aiutandosi con una normalissima videocamera da cineamatore, Panahi si finge tassista per ingannare (sul serio!) le autorità iraniane simulando il trasporto di numerosi passeggeri, attori in incognito, i cui dialoghi con il presunto "autista" ci aiutano a capire e riflettere sulla situazione del paese. Il film è di un realismo impressionante, tanto che all'inizio, pur sapendolo, ci sembra impossibile che non sia un documentario "vero". Ma è grazie a una sceneggiatura di ferro e a un montaggio sapiente malgrado gli scarsi mezzi a disposizione (e qui si vede davvero il tocco d'artista) che ci accorgiamo di come Taxi Teheran sia un'opera toccante e profondamente politica, in cui nulla è lasciato al caso e in cui ogni personaggio che sale in macchina è lì per farci conoscere un determinato aspetto di una nazione affascinante e oppressa, giovane e "ribollente" di rabbia, eternamente divisa tra fanatismo religioso e voglia di aprirsi all'occidente e al progresso.
Vediamo così salire sul taxi un avvocato-donna (quasi un'eroina in un paese maschilista fino al midollo) che si reca in carcere per assistere un'amica imprigionata per essere andata allo stadio da sola, ci sono due signore anziane che per scaramanzia cercano di portare due pesci rossi dall'altra parte della città, un ferito in un incidente stradale che vuole far testamento con un modernissimo smartphone, temendo che sua moglie non possa ereditare nulla, una ragazzina (la vera nipotina del regista) che interroga il regista stesso sul concetto di realismo e su come girare un documentario per la scuola stando ben attenta "a raccontare la verità, purchè non sia troppo cruda..."
Ma c'è una scena che, personalmente, ritengo non solo la più bella del film ma una delle più belle in assoluto dell'intera stagione: lo scambio di battute con Orim, "spacciatore" di dvd pirata che, beffardamente, si erge a difensore del cinema "libero", andando fiero di vendere sottobanco agli iraniani i film di Woody Allen, è semplicemente straordinario per l'ironia e la contestuale commozione che sprigiona. Il cinema come grimaldello per la libertà, il "pusher" che piazza una droga ben più pesante e potente di quelle "tradizionali", fatta di immagini e sogni. In questa scena di pochi minuti c'è una Nazione intera, c'è il bisogno di libertà, c'è il grido appassionato ma non disperato (anzi, battagliero) di un cineasta e di un popolo che non si rassegna ad essere oppresso e che cerca in ogni modo di farlo capire al mondo.
La bellezza di Taxi Teheran sta tutta qui, in quest'ironia di fondo che sottace un dramma senza mai cadere nel pietismo, un film che non si piange addosso e dimostra di saper coinvolgere e appassionare anche nella ristrettezza di mezzi con cui è stato realizzato. Una sola cosa fa davvero impressione: in questo film non ci sono nè titoli di testa, nè di coda. Perchè come dice lo stesso regista, "mettere i titoli avrebbe significato mettere nei guai tante persone, poichè il regime iraniano scheda tutti i credits dei film divulgabili e il mio certamente non lo è...".
Ricordatevi (anche) di questo, quando andrete a vederlo.
Socialmente molto importante, eppure io l'ho trovato fin troppo artefatto.
RispondiEliminaBuono, senza dubbio, ma da Panahi mi aspetto decisamente di più.
Ne parlerò nei prossimi giorni.
E' certamente artefatto (però all'inizio non si capisce proprio), del resto è un film di finzione: però io trovo che sia un punto di forza, la sceneggiatura è davvero notevole
EliminaE' un atto d'amore verso il cinema, fatto con pochi mezzi e tanto cuore. Ma anche un chiaro manifesto politico, stilisticamente validissimo tenuto conto delle condizioni in cui è stato girato.
RispondiEliminaNon posso che essere d'accordo
EliminaSono stata recentemente in Iran e devo dire che, da donna, non ho trovato tutta questa sensazione di oppressione e sottomissione. E' un paese giovane, vitale, che ci tiene a far bella figura nei confronti di noi occidentali. In fin dei conti chi siamo noi per giudicare gli altri? Posso dire di essere stata accolta benissimo e di aver trovato un paese meraviglioso e per certi versi affascinante...
RispondiEliminaImmagino che tu ci sia andata da turista, e credo che da turisti molte, tante cose non si vedano. Proprio perchè, come dici tu stessa, hanno tutto l'interesse a fare bella figura nei confronti dell'occidente. E comunque una cosa è vivere in un paese per pochi giorni, magari in alberghi di lusso, altro è viverci per 365 giorni l'anno nelle condizioni che sappiamo.
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