(En duva satt pa en gren och funderade pa tillvaron)
di Roy Andersson (Svezia, 2014)
con Holger Andersson, Nils Westblom, Charlotta Larsson, Viktor Gyllenberg, Lotti Tornros
durata: 101 min.
★★★★☆
E' di oggi la notizia che Lucky Red ha comprato i diritti per la distribuzione italiana del Leone d'oro di Venezia: un'ottima cosa, nient'affatto scontata per un film assolutamente folle, stralunato, genialmente nonsense come quest'ultima opera di Roy Andersson, destinata inevitabilmente a palati fini. Cui, lo dico a scanso di equivoci, il sottoscritto ne ha predetto il trionfo un secondo dopo l'apparizione dei titoli di coda. Lo dico non per vantarmi di chissà cosa (i pronostici in genere non li indovino mai) ma semplicemente a riprova del fatto che A pigeon sat on a branch reflecting on existence (un piccione seduto su un ramo rifletteva sull'esistenza) era davvero il film più 'alternativo' e intrigante del concorso veneziano.
Roy Andersson è un corpulento signore settantenne che è sbarcato al Lido come fosse un marziano, e non solo per essersi presentato alla prima del suo film in tuta da ginnastica, sfidando tutti i protocolli: Andersson è una specie di 'Malick' scandinavo (appena cinque film diretti in oltre mezzo secolo di carriera) il cui modo di fare cinema è strettamente ancorato a un'idea esistenzialista, paradossale e dichiaratamente arcaica del cinema stesso: questo film è fatto di quadri in movimento, intesi proprio come elementi pittorici (non a caso è ispirato proprio a un dipinto, Cacciatori nella neve di Bruegel), oltre che di inquadrature rigorosamente fisse (non c'è un solo movimento di macchina in cento minuti di pellicola), una fotografia dalle cupe tinte pastello e un montaggio quasi elementare, i cui unici 'stacchi' sono, appunto, i 39 quadretti (più un prologo) che lo compongono.
Un film grottesco, dai toni grigi, opachi, lividi, come i personaggi che descrive: forse è lo specchio di una nazione (la Svezia?) che forse non è proprio quel luogo ameno e tranquillo, benestante, culturalmente elevato che c'immaginiamo. E che forse non è nemmeno popolato da forme di vita del tutto intelligenti come è lecito pensare... questa, a dire la verità, è l'ipotesi del piccione impagliato che nel prologo viene osservato con attenzione da un uomo impietosamente sfatto, tetro e pallido come un'ectoplasma. E forse sono davvero ectoplasmi, vuoti simulacri, quei poveri freaks che il pennuto osserva dall'alto, distaccatamente, con sguardo compassionevole...
Andersson fotografa con cristiana pietà e folle humor nero un'umanità spaventosamente gretta, indegna di vivere. Il suo è un film sull'insensatezza della società moderna, palesemente votata all'autodistruzione: non a caso l'incipit ci parla subito di 'tre incontri con la morte', tre episodi costruiti con precisione chirurgica sull'indegnità dello stare al mondo: un uomo muore mentre stappa allegramente una bottiglia, una vecchia in punto di morte rifiuta di consegnare ai nipoti avidi la sua borsetta (piena di soldi), un cliente di una mensa aziendale stramazza al suolo per un infarto e l'unica preoccupazione degli altri avventori è quella di come impossessarsi del cibo già pagato... si ride, e molto, ma davvero amaramente. Ed è solo l'antipasto per ciò verrà dopo.
Le immagini successive infatti si susseguono come pugni nello stomaco, in un crescendo parallelo di ilarità e inquietudine, neanche troppo sottile: entrano in scena personaggi strambi e tragicamente vuoti, si ride della sofferenza altrui, un po' come vedendo i poveri animali addomesticati dei circhi...
due derelitti venditori di scherzi di carnevale cercano invano di piazzare i loro gadget, un re settecentesco, segretamente gay, irrompe a cavallo in un pub moderno e sequestra il giovane barista (dopo aver cacciato tutte le donne a fil di spada), un'insegnante di ballo palpeggia insistemente il suo docile allievo, una vecchia locandiera offre baldanzosamente il proprio corpo (zoppo) ai marinai che non hanno i soldi per pagare le bevute, in un esilarante numero da musical: storie di ordinaria follia e (dis)umanità, che finiscono tritate nel lugubre, gigantesco 'girarrosto' finale in cui vengono infilzati allo spiedo numerosi ragazzetti di colore...
Tutto si può dire di questo film, tranne che sia banale. Si ride e si piange, con retrogusto amaro, un po' come riguardando dopo tanto tempo i film di Fantozzi. Certo l'umorismo di Andersson (se di umorismo si può parlare) è ben più sottile e bonariamente nonsense: ricorda un po' il Kaurismaki prima maniera, un po' i Monty Python, volendo perfino Fellini (non è una bestemmia). Ma a ben vedere lo stile è spiazzante e inconfondibile, assolutamente unico. Andersson è un Autore con la A maiuscola, che merita di essere riscoperto e valorizzato. E pazienza se questo film farà forse solo una fugace apparizione nelle nostre sale, tanto non è cinema per tutti, e non è un discorso snob: tuffarsi nel mondo di Andersson significa abbandonarsi totalmente alle immagini, essere disposti a tollerare un'auto-analisi di coscienza e ridere amaro sulle riflessioni di un piccione su un ramo... se accettate queste condizioni, assisterete a un'opera grandiosa.
Mi incuriosisce molto. Spero di vederlo presto! :D
RispondiEliminaLo spero anch'io... significherebbe che qualcuno ha avuto il coraggio di farlo uscire al cinema!
Elimina