domenica 27 maggio 2012

CANNES, GARRONE VINCE IL GRAN PRIX CON 'REALITY'. PALMA D'ORO AD HANEKE



Cannes incorona di nuovo Michael Haneke, ma per noi italiani gli applausi sono tutti per Matteo Garrone: il suo Reality conquista il prestigioso Grand Prix, ovvero la 'medaglia d'argento' del concorso, a quattro anni di distanza da Gomorra. Per il cineasta romano è la definitiva consacrazione nell'Olimpo degli Autori con la 'A' maiuscola, ottenuta oltretutto con un film rischiosissimo e surreale, che unisce commedia e dramma, sentimento e sarcasmo feroce: la storia del pescivendolo napoletano disposto a vendere l'anima al diavolo pur di partecipare al Grande Fratello era di per sè una grande scommessa, felicemente vinta. Garrone promette uno spaccato feroce e grottesco della televisione italiana, e noi moriamo dalla voglia di vederlo. Non stiamo adesso a disquisire sull'annoso (e palloso) tema dell'ennesima 'rinascita' del cinema italiano, è un argomento che come sapete non ci appassiona. Però va pur detto che dopo il trionfo dei Taviani alla Berlinale questo è un altro riconoscimento importante alla nostra produzione. E qualcosa vorrà pur dire.

Michael Haneke (al centro) e il cast di 'Amour'
Vince Haneke, dicevamo, e questa invece non è certo una sorpresa: come (fin troppo) annunciato dai 'rumors' provenienti dagli addetti ai lavori, il regista austriaco si porta a casa la 65. Palma d'Oro, la seconda personale dopo quella vinta tre anni fa con Il nastro bianco. Il suo nuovo film si chiama semplicemente Amour, e racconta la struggente storia d'amore tra una coppia di insegnanti di musica ultra-ottantenni, messa a dura prova dalla malattia che colpisce la moglie. Canovaccio come si vede non certo originale, ma pare che le interpretazioni di Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva valgano da sole il prezzo del biglietto. Vedremo. Certo resta la curiosità di vedere come un regista solitamente 'agghiacciante' e torbido come Haneke si sia cimentato in una vicenda sentimentale. Anche se, c'è da scommetterci, conoscendolo difficilmente ci sarà il lieto fine...

Ken Loach
Per il resto, pochi 'scossoni' anche per quanto riguarda gli altri premi: come si evince leggendo il palmarès, infatti, mai come quest'anno si è voluto premiare l' 'usato sicuro': quasi tutti i vincitori sono personaggi già premiati in passato, a testimonianza di una certo conformismo di fondo (malgrado la 'mina vagante' Moretti presidente di giuria) e, probabilmente, di una qualità artistica complessivamente non eccelsa. Ed allora, ecco che il Premio della Giuria va al 'vecchio' Ken Loach con il suo The angel's share, mentre la miglior sceneggiatura è quella del romeno Christian Mungiu (quello di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni) in gara con Beyond the hills, film che vede premiate ex-aequo anche le due attrici principali, Cosmina Stratan e Cristina Flutur. Miglior attore in gara è invece il danese Mads Mikkelsen, interprete de La caccia, film di Thomas Vinterberg, ex allievo di Lars Von Trier (la piccola Danimarca, quindi, continua a mietere successi). Premio per la miglior regia, invece, al messicano Carlos Reygadas per Post tenebras lux.

sabato 26 maggio 2012

COSMOPOLIS

(id.)
di David Cronenberg (Canada, 2012)
con Robert Pattinson, Paul Giamatti, Jay Bauchel, Samantha Morton, Juliette Binoche, Sarah Gadon
VOTO: ****

Non è una bella sensazione andare al cinema e trovarsi di fronte alla morte, è un po' come andare in macchina dritti contro un muro. Ecco, Cosmopolis è film che parla di morte, ne è impregnato fin dalle prime immagini, sembra quasi di sentire l'odore di un'umanità putrefatta, senza scampo: ci sono topi che sbattono contro le portiere, automobili che sembrano bare viaggianti, personaggi talmente dis-umani che paiono catapultati direttamente dall'inferno, quasi come dei moderni Caronte venuti a prendersi quello che resta del mondo. Cronenberg è tornato, e dopo l'algida parentesi veneziana di A dangerous method, stavolta fa sul serio. E gioca pesante.

La trama è talmente risibile che quasi non ha senso raccontarla. Un giovane e ricchissimo uomo d'affari è deciso ad attraversare tutta la città a bordo della sua limousine lunga dieci metri per andare a farsi tagliare i capelli dal suo barbiere di fiducia. Lo farà a costo di passare in auto un'intera giornata in una New York paralizzata dalla visita del Presidente e dalle rivolte sociali. Nella sua immensa auto che funge da alcova, il protagonista assiste alla disgregazione della società attraverso i vetri dei finestrini, facendovi salire a bordo tutti quelli che desidera incontrare e che possono trasmettergli un motivo per continuare a vivere.

Ma in realtà anche lui è già morto, esattamente come il mondo che c'è al di fuori della sua macchina. La fine dell'umanità arriva silenziosa, ovattata, attutita dai vetri antiproiettile che sfumano anche la bella colonna sonora di Howard Shore. Cerca disperatamente emozioni, stimoli,  ma tutto quello che riesce ad avere è sesso senza gioia, semplice esercizio fisico, e non servirà a niente nemmeno flagellare il suo corpo, perchè ormai è ridotto a un involucro vuoto, un simulacro di infelicità. E' un po' come Maria Antonietta, persona potente e terribilmente sola, il cui tormento personale interiore non le fa capire quello che sta accadendo 'fuori' dal suo palazzo dorato.

Il viaggio verso il negozio del barbiere è l'Odissea tragica di un Ulisse del nostro tempo. Il momento dell'incontro con l'anziano parrucchiere è l'unico spiraglio di umanità in un film disumano, che infatti dura pochissimo. Scappa, spaventato dal calore di una voce amica, forse accorgendosi che è troppo tardi per riprendersi la gioventù. Nel frattempo anche il suo impero economico si sta sfaldando, sotto i colpi dell'economia cinese e dalla rivoluzione del proletariato. E allora non resta che uscire dall'auto, nel pieno della bufera, andando incontro a colui che lo vuole uccidere, perchè tanto lo sa, non potrà succedergli più nulla. Non c'è più un futuro.

Cosmopolis è un film che è lo specchio fedele del caos e dello spaesamento della nostra generazione. E' tratto da un romanzo di Dom DeLillo, dal quale ne riprende fedelmente i verbosissimi dialoghi, spesso disconnessi dalle immagini e dalla storia. Ma è un film cronenberghiano fino al midollo, allucinante e allucinato, quasi 'definitivo', per nulla consolatorio. Faticosissimo da seguire, magnificamente fotografato, estenuante come la storia che racconta, difficilissimo da interpretare e raccontare, Cosmopolis vuole trasmetterci prima di tutto la paura di vivere in un mondo che non riusciamo più a capire. E ci riesce perfettamente.

giovedì 24 maggio 2012

JODIE 50- I FILM - Sotto accusa


Il suo compleanno è il 19 novembre, ma noi cominciamo a festeggiarla adesso... perchè? Perchè Jodie Foster, al traguardo del mezzo secolo, è l'attrice 'moderna' che a nostro modestissimo parere ha meglio omaggiato il Cinema in tutti i suoi aspetti: l'abbiamo vista crescere (letteralmente) dietro la macchina da presa, l'abbiamo ammirata in ruoli sempre diversi a seconda delle stagioni della sua (e nostra) vita, l'abbiamo seguita in ogni sua trasformazione artistica. Sì, Jodie ci piace parecchio, non l'abbiamo mai nascosto... non sarà una 'moral guidance' (come ha fatto con Clint Eastwood il settimanale FilmTv), ma per noi rappresenta la bravura, la professionalità, l'incarnazione per un lavoro che fin da subito le è entrato dentro. Jodie è una perfetta 'macchina per recitare'. E noi la ricordiamo con i suoi film, che ci hanno accompagnato per mano. Crescendo insieme a lei.


SOTTO ACCUSA (The accused, USA 1988) di Jonathan Kaplan


A vederlo oggi nessuno si scandalizzerebbe più. In un'epoca 'anestetizzata' dai media e dal qualunquismo della gente, sempre più egoista e chiusa in se stessa, la notizia di una ragazza violentata su un flipper non riempirebbe nemmeno la quarta pagina di un giornale. Eppure, sembra incredibile, circa un quarto di secolo fa questo film 'scombinò' molte coscienze, provocando dibattiti su dibattiti nell'America bacchettona, benpensante e profondamente 'reaganiana' degli anni'80.

Sotto accusa è, semplicemente, la cronaca di uno stupro e la lotta di una persona 'normale' che cerca di far valere in tutte le sedi la propria dignità di donna e di essere umano nel difficile contesto storico appena descritto, intriso di ipocrisia e ignobile maschilismo. Ho detto persona 'normale' non a caso: Sarah Tobias, infatti, non è affatto una 'santarellina', ma una giovane donna con tanti problemi, tanti difetti, per niente simpatica e un anche un tantino sfigata. E' una donna che non piace allo spettatore, e non fa nulla per farsi piacere. Volutamente.

Il regista ci pone di fronte alla terribile sequenza dello stupro, dimostrandoci che si tratta di un atto bestiale e inconcepibile, assolutamente non giustificabile, indipendentemente dalle qualità morali della vittima. Jodie Foster inaugura così la sua carrellata di personaggi femminili 'memorabili', contraddistinti da grande coraggio, furiosa determinazione e immensa solitudine. La performance di Jodie va ben oltre il suo primo Oscar: la sua Sarah Tobias è una figura che ci resta scolpita nella mente, che cattura il nostro sguardo e il nostro cuore, capace di offuscare chiunque, perfino i suoi violentatori che restano sempre in secondo piano perfino nell'interminabile scena-madre...


Film imperfetto, eppure ancora disturbante. All'epoca fu censurato e tagliato nei passaggi televisivi, oggi praticamente assenti. Jodie appare radiosa e 'selvaggia', dolente e ribelle. Questo film la catapultò nell'olimpo di Hollywood, dal quale non verrà però stritolata. Esattamente come la sua Sarah .

lunedì 21 maggio 2012

MARGIN CALL

(id.)
di J.C. Chandor (USA, 2011)
con Kevin Spacey, Jeremy Irons, Paul Bettany, Zachary Quinto, Stanley Tucci, Demi Moore
VOTO: ***

"Sono solo soldi", ringhia il luciferino Jeremy Irons di fronte agli scrupoli di coscienza di un tormentato Kevin Spacey... Nel corso di una notte, una lunghissima notte, si compie il destino di una grande banca d'affari che per evitare il fallimento è costretta a liquidare le sue azioni appioppandole agli ignari risparmiatori che, di lì a poche ore, si ritroveranno con un pugno di mosche in mano. Margin Call è il vocabolario illustrato della crisi finanziaria e sociale di questi primi anni duemila, dove il capitalismo impazzito è un gioco che sfugge di mano perfino a chi pensava di detenerne il controllo, e dove nei lussuosi uffici con le vetrate su Manhattan si assiste cinicamente alla disgregazione di un modello di società civile che non regge più di fronte al Dio Denaro.

I soldi, infatti, sono i veri protagonisti di questa pellicola. Si parla solo di soldi, tanti soldi, così tanti da perderne di vista anche il loro reale significato. Nella new-economy coloro che accumulano soldi sono anonimi impiegati in giacca, cravatta e camicia inamidata, che spostano vagonate di denaro cazzeggiando sulla tastiera di un computer. Si chiamano manager, broker, trader... non sanno nemmeno quanto guadagnano. Non producono. Non vivono e non se li godono neppure. Il giovane analista appena assunto dall'azienda guadagna 250mila dollari all'anno e non sa come spenderli, chiedendo 'consigli' a chi guadagna dieci volte tanto.

Margin Call è la cronaca di una malattia, di un sistema sull'orlo della decomposizione che finisce per travolgere chiunque. E' la resa dei conti di chi ha permesso la concentrazione di un Potere immenso nelle mani di (troppe) poche persone, spesso incapaci di gestirlo. Nel film non se ne parla, ma è evidente il riferimento al caso Lehman-Brothers, uno dei tanti giganti dai piedi d'argilla che negli ultimi tempi hanno gettato sul lastrico migliaia di risparmiatori, avviando la grande crisi economica mondiale.

Un film lodevole nelle intenzioni, coraggioso e rigoroso nel suo tentativo di denuncia e indignazione, ma eccessivamente strozzato dalla sua impostazione teatrale, rigida e ideologizzata, che ne fanno una pellicola troppo schematica e troppo spesso scadente nell'ovvietà, di stampo classico stile cinema anni '70 ma senza i 'guizzi' registici geniali di, che so, di un Michael Mann o un Alan Pakula. Ne viene fuori un film tenuto brillantemente a galla dai suoi splendidi attori, che sopperiscono con i loro sguardi e i loro silenzi a una sceneggiatura abbastanza enfatica e stereotipata.

Molti hanno scomodato per i consueti paragoni Wall Street  o Inside Job, ma a noi Margin Call fa venire in mente soprattutto uno splendido e (purtroppo) poco conosciuto film di una ventina d'anni fa, Glengarry Glen Ross di James Foley, da noi conosciuto col titolo di Americani e che aveva tra i protagonisti, guardacaso, lo stesso Kevin Spacey. Basta rivedersi questa pellicola, che all'epoca anticipava a gamba tesa tutti i discorsi che abbiamo appena fatto, per rendersi conto che Margin Call non ne è che la copia sbiadita. Ma se serve per scuotere anche una sola coscienza, comunque, ben venga.

sabato 19 maggio 2012

TUTTI I NOSTRI DESIDERI

(Toutes nos envies)
di Philippe Lioret (Francia, 2011)
con Vincente Lindon, Marie Gillain, Amandine Dewasmes
VOTO: ****

Ogni arte è figlia del tempo in cui viviamo, e il discorso vale ovviamente anche per il cinema. E in tempi di crisi economica e sociale, ecco nascere di conseguenza un filone che potremo definire 'cinema della crisi': pellicole che portano dentro nella loro anima tutte le ferite e le contraddizioni di quest'epoca, con risultati spesso notevoli. Un primo bell'esempio è stato The company men di John Wells (colpevolmente uscito da noi solo in dvd, e che invito tutti a recuperare), mentre si appresta a sbarcare in sala Margin call, di J.C. Chador, con un cast stellare e una sceneggiatura (si dice) da capogiro. E di cui parleremo tra pochissimo...

Anche la Francia però ha voluto dire la sua. E a suo modo. Lo ha fatto con un regista bravissimo e sottovalutato, quel Philippe Lioret che avevamo già apprezzato col precedente Welcome (dura ma nello stesso tempo 'poetica' stilizzazione dell'immigrazione clandestina), e che torna sugli schermi con un film appassionato e sentito, sinistro eppure commovente, sullo stile del Ken Loach prima maniera. A voler essere cattivi, diremmo che Tutti i nostri desideri è il film che il vecchio 'Ken il rosso' non riesce più a fare, 'ammorbidito' dall'età e (forse) da un pessimismo di fondo sempre più pronunciato.

Tutti i nostri desideri è un dramma giudiziario che ha come sfondo, appunto, la tremenda depressione del nostro tempo. La protagonista è Claire, avvocatessa che si ritrova tra le mani il caso della giovane Celine, madre disperata trascinata in tribunale da un istituto bancario che pretende la restituzione di un prestito a cui la ragazza non è più in grado di far fronte. Le storie delle due donne si intrecciano e si legano indissolubilmente, nonostante un destino tragico: Claire, determinata a difendere la sua cliente a tutti i costi, viene colpita da un male incurabile alla testa che le lascia pochi mesi di vita... ma il desiderio di giustizia e di umanità verso Celine, e l'aiuto prezioso di un collega, Stephane, le infonderanno il coraggio di proseguire nella sua missone. Fino all'ultimo giorno.

Philippe Lioret è un cineasta che riesce in un 'mestiere' difficilissimo: riuscire a toccare il cuore degli spettatori senza ricattarli moralmente e senza eccedere nel vittimismo e nel compatimento. Nessuna spettacolarizzazione del dolore, insomma, ma un film che sa abbinare sapientemente accanto a un dramma sociale ben conosciuto di questi tempi un dramma personalissimo, privato, intenso, che ci fa quasi dimenticare il contesto storico in cui si svolge la vicenda. Tutti i nostri desideri è un film che ci fa riscoprire la dolcezza dell'intimità, la delicatezza e il disperato bisogno di un contatto umano, in qualsiasi condizione.

Ci sono momenti toccanti, di grande effetto pur nella loro fiera sobrietà. Per chi scrive la scena del bagno nel lago ghiacciato resterà impressa nella memoria per lungo tempo. Da sola vale l'intero film. Ma è giusto (doveroso?) vederla tutta, dall'inizio alla fine, questa pellicola che parla di giustizia, coraggio, morte e redenzione, se non altro per apprezzare anche le sue bravissime attrici: tra le quali rivediamo, con grande gioia, la bella Marie Gillain. Sono passati tanti anni da Harem Suare, in cui l'avevamo scoperta e ammirata, ma classe ed eleganza davvero non vengono mai meno.  

lunedì 14 maggio 2012

DARK SHADOWS

(id.)
di Tim Burton (USA, 2012)
con Johnny Depp, Michelle Pfeiffer, Eva Green, Chloe Moretz, Bella Heathcote, Helena Bonham-Carter, Jonny Lee Miller
VOTO: ***

Sono convinto che Dark Shadows sia un titolo importante nella filmografia di Tim Burton. Certamente non lo è dal punto di vista artistico (diciamolo subito, così ci togliamo il pensiero), ma lo è indubbiamente da quello professionale: credo che Burton adesso sia un po' nella stessa condizione della tenera Victoria, l'infelice innamorata del suo film... ovvero sull'orlo di un precipizio dal quale può dipendere la sua carriera futura, e nella non facile condizione di decidere (finalmente!) 'cosa fare da grande'.



Insomma, a mio modo di vedere Dark Shadows costituisce uno spartiacque importante, forse decisivo, nella cinematografia del regista californiano. Nel senso che è un film per certi versi affascinante, beffardamente ironico, eppure tremendamente irrisolto: un film che gira troppo su se stesso e troppe volte a vuoto, approfittandosi oltremodo di una 'confezione' di gran classe che però non basta a tamponarne l'inconsistenza di fondo. Un Tim Burton, insomma, che si sta pericolosamente avviando sulla strada di un Woody Allen qualsiasi: troppi titoli ormai al di sotto del suo standard, dove il 'genio' lascia sempre più spazio alla routine e non lascia presagire niente di buono. Crisi creativa, stanchezza, o omologazione agli standard hollywoodiani? A voi il sondaggio.

Dark Shadows comunque non è un brutto film, tuttaltro. E' un divertente tuffo nel passato, dove la consueta vena 'dark' del regista si fonde felicemente con la cultura hippie e 'sgangherata' degli anni '70, in un genuino omaggio ad una serie telivisiva 'cult' del periodo, che non fatichiamo a credere quanto possa essere piaciuta ad uno dei registi più 'pulp' del cinema moderno. Si ride e si trascorrono cento minuti come in piacevole compagnia di un vecchio amico, divertendosi a indovinare le innumerevoli citazioni 'cinefile' del film (qualcuna è un vero e proprio 'omaggio' all'epoca, vedi il cameo in cui è 'coinvolta' addirittura la rockstar Alice Cooper, nel ruolo di se stesso).

Tuttavia, depurato di citazioni colte, un buon cast, ottime scenografie e una confezione 'deluxe', il film dimostra tutti i suoi limiti nella trama: una storia piatta e senza mordente, stravista, preconfezionata, con dei buchi di sceneggiatura abbastanza clamorosi (con dialoghi a volte improponibili e personaggi che 'scompaiono' e riemorgono, e non per magìa...). Visivamente bellissimo, ma assolutamente inconcludente e poco approfondito a livello di script, Dark Shadows non è tenuto a galla nemmeno da Johnny Depp, star ormai in completa simbiosi col regista, eppure qui 'normalizzato' da una partitura banale.

Tim Burton al bivio, come si diceva. Troppo scialbe le sue ultime regìe per credere che siano solo 'incidenti di percorso'. E anche se Dark Shadows è il suo miglior lavoro dai tempi de La sposa cadavere (ormai datato 2005) è, francamente, ancora troppo, troppo poco per meritarsi un applauso convinto. Forse in passato ci aveva abituato talmente bene che adesso diventa difficile appassionarsi per stereotipati divertissement come questo, ma d'altra parte è il destino dei più bravi... alla prossima, Tim!

martedì 8 maggio 2012

SORELLE MAI

Avviso ai naviganti, ovvero ai tre-lettori-tre di questo blog: questo pezzo partecipa (modestissimamente) al concorso organizzato dalla Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro e riservato a tutti i blogger di ogni ordine e grado, allo scopo di rendere omaggio alle personalità illustri ospitate dalla rassegna nel corso della sua storia. 
Se vorrete votare il mio articolo (fatelo! non costa niente...) basterà che chiediate l'amicizia alla pagina Facebook ufficiale della rassegna (che sarà subito accettata, è fatta apposta per questo) e cliccate il 'mitico' tastino 'mi piace' sul post riguardante questo pezzo. 
Quando? Da venerdì 11 (mattina) fino a lunedì 14 alle ore 13,00...
Vi ringrazio tutti quanti, in anticipo, per la collaborazione !!

(id.)
di Marco Bellocchio (Italia, 2010)
con Elena, Maria Luisa, Letizia e Piergiorgio Bellocchio, Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher, Gianni Schicchi.
VOTO: ****

Domanda retoricissima e scontata: può un film di Marco Bellocchio essere definito 'minore'? E può un film di Marco Bellocchio risultare banale, fine a se stesso, un semplice esercizio di stile?
Le risposte le lascio a voi: a me preme soltanto consigliare a coloro che non lo avessero ancora visto Sorelle Mai, l'ultimo film del regista piacentino, passato fuori concorso alla 67. Mostra del Cinema di Venezia. E consiglio vivamente di non perderlo. Qualuno potrà definirlo 'un gioco', altri 'un ricercato divertissement', ma questo piccolo lungometraggio, fortemente autobiografico, girato a costo zero durante le vacanze estive e realizzato addirittura nell'arco  di un decennio, può definirsi davvero un 'gioiellino' raffinato e prezioso.

Un lavoro che è nato quasi per caso, senza nemmeno prevedere una futura distribuzione, con un cast di parenti e amici a cui solo in un secondo momento si sono aggiunti attori 'veri', che comunque hanno prestato la loro opera assolutamente gratis, come in un momento di 'ricreazione'. Un progetto casuale, assolutamente libero, senza alcun condizionamento da logiche di mercato e per questo veramente genuino, spensierato, leggero come mai abbiamo potuto riscontrare in un film del 'Maestro'.

Sorelle Mai non è un'imprecazione... Mai è semplicemente il cognome delle due donne protagoniste della storia (nonchè vere sorelle del regista), due arzille vecchiette che fanno da fulcro a una trama che le vede impegnate a convivere con i delicati rapporti famigliari tra la nipote Sara, sua figlia Elena, il fratello Giorgio, tutti brillantemente interpreti di loro stessi. L'epicentro della storia è a Bobbio, il paese natale di Bellocchio, e questa ironica e tenera docu-fiction altro non è che un ritratto gioioso, appassionante e ricercato di una famiglia 'particolare', fatta di delicati intrecci umani, piccoli segreti, drammi sotto pelle, dilemmi e dispiaceri di figli e nipoti più o meno 'scapestrati'.

Composto da sei episodi girati tra il 1999 e il 2008 (e dove il tempo 'reale' coincide con quello dell'azione), il film è girato (non certo casualmente) negli stessi luoghi del lungometraggio d'esordio del maestro piacentino: parliamo ovviamente de I pugni in tasca, titolo più volte 'evocato' nella pellicola, quasi a voler significare una continuità di un percorso narrativo, umano, stilistico e professionale che va avanti ormai da oltre quarant'anni e dimostra quanto il regista stesso tenga in considerazione i valori del ricordo e della Memoria, elementi fondanti non solo della sua filmografia ma (soprattutto) anche della società civile. Anche in un film esile e 'goliardico' come questo.

Tuttavia, a scanso di equivoci, va detto che Sorelle Mai è un film 'bellocchiano' al 100%, con tutte le caratteristiche dell'opera-omnia dell'illustre cittadino: simbolismi, iperboli, suggestioni, 'rabbia' filmica più o meno repressa, anche in un contesto apparentemente accomodante e ospitale come quello della famiglia. A fare la differenza è il registro del film, decisamente più spontaneo e brillante, che fa quasi 'simpatia', abituati come siamo alle  'atmosfere' complesse e irrazionali di tutti i film di Bellocchio, e che qui paiono stemperarsi in un raccontino esile e dretto. Ma piano piano, andando verso il finale abbastanza 'sconvolgente', ecco che i nodi vengono al pettine e le tematiche profonde di un cineasta mai scontato e sempre  coerentemente 'impegnato'  non vengono meno neanche stavolta. Ma è meglio non dire altro per non rovinarvi la visione... vi basti sapere che gli attori sono bravissimi (compresi gli 'ospiti' Alba Rohrwacher e Donatella Finocchiaro), i dialoghi naturali e accattivanti,  e che tutti i 110 minuti del film sono un' autentica delizia per gli occhi.

Quanto basta per convincervi a vederlo. In attesa del prossimo lavoro, che si preannuncia ben diverso e certamente molto meno 'leggero'. Bellocchio torna ai suoi standard mettendo in scena (scommettiamo) da par suo la vicenda di Eluana Englaro... si chiamerà La bella addormentata, e certamente non mancheremo di parlarne. Non solo noi, c'è da scommetterci!

domenica 6 maggio 2012

17 RAGAZZE

(17 filles)
di Delphine e Muriel Coulin (Francia, 2012)
con Luoise Grinberg, Juliette Darche, Roxane Duran, Esther Garrel, Yara Pilartz
VOTO: **

Tratto (pare) da una storia vera, accaduta negli Stati Uniti, le sorelle Delphine e Muriel Coulin decidono di trasportare a Lorient, piccola cittadina francese sulla costa atlantica, la curiosa storia di 17- ragazze-diciassettenni che decidono di restare incinte tutte insieme, nell'arco di poche settimane, sia in segno di solidarietà verso la 'leader' del gruppo (ribelle per antonomasia e prima ad 'aprire le danze', a causa di preservativo rotto...) sia come gesto di sfida verso una società bigotta e perbenista che non 'concepisce' (il gioco di parole ci sta tutto) nemmeno negli anni duemila l'idea di mamme-minorenni.

Insomma, la maternità come ribellione verso il sistema ed extrema ratio verso il disperato desiderio di indipendenza e di accettazione: sulla carta c'erano tutti i presupposti per farne un film interessante, a cominciare da una storia intrigante e decisamente curiosa, sebbene molto romanzata dalla coppia di registe (in realtà quanto accaduto in Massachussets sembra sia stato un fatto molto meno 'poetico' e sociale: le liceali americane sarebbero state spinte da desiderio di emulazione verso il film Juno di Jason Reitman, in cui però la gravidanza della protagonista era accidentale e non voluta), ma lasciamo stare.

Quello che conta è che, cinematograficamente parlando, si nota in questa pellicola un'evidente sproporzione tra buone intenzioni ed effettiva riuscita. Probabilmente le tre lettrici donne di questo blog non saranno d'accordo con me, giudicandomi poco sensibile ad argomenti delicati e tipicamente 'femminili', forse difficili da capire per un uomo che, come nel caso del sottoscritto, non è nemmeno padre. Ma non posso esimermi dall'affermare che 17 ragazze è un film presuntuoso e irritante, poco risolto e tremendamente noioso.

17 ragazze ha il demerito di concentrarsi quasi esclusivamente sullo scorrere delle maternità delle sue protagoniste, lasciando fuori tutto quello che c'è 'oltre' le loro vite: non si parla quasi mai delle loro famiglie, delle istituzioni, delle persone che frequentano e, soprattutto, di coloro senza i quali quelle maternità non ci sarebbero mai state... insomma, nel film i ragazzi, i padri naturali, non esistono. Non contano, restano sullo sfondo lasciando i riflettori esclusivamente alle fanciulle.

Il problema è che lo sguardo della macchina da presa verso le ragazze è pesante e sfocato, tipicamente 'dardenniano' (i fratelli belgi, pluripremiati a Cannes, sono i produttori del film), fatto di interminabili primi piani, infiniti campi lunghi sui tristissimi paesaggi atlantici, pieno di silenzi e frasi spezzate, che potrebbero voler dire tante cose ma anche niente (e il sospetto viene più di una volta). Ne viene fuori una pellicola ruffiana e auto-referenziale, monotona e noiosa come poche, che nei novanta minuti scarsi di durata ti spinge più di una volta a guardare l'orologio. Classico oggetto da festival, molto 'francese' (con la erre moscia) ma estremamente dimenticabile.   

sabato 5 maggio 2012

DAVID 2012, SBANCANO I TAVIANI

i fratelli Taviani, trionfatori ai David 
"Dedichiamo la serata ai nostri attori, alcuni dei quali sono ancora in galera". Con questa frase a effetto Paolo e Vittorio Taviani si sono congedati dalla cerimonia dei David di Donatello, dove il loro film Cesare deve morire ha fatto man bassa dei premi più importanti aggiudicandosi ben cinque statuette, tra cui quelle più 'pesanti': miglior film, regia, produzione, montaggio e suono. Un'annata da incorniciare per i due ultra-ottantenni registi toscani, freschi vincitori anche dell'Orso d'oro al Festival di Berlino e (finalmente) tornati prepotentemente sotto le luci dei riflettori.

'Cesare deve morire', miglior film
A dire il vero i Taviani non se n'erano mai andati, ma la memoria corta e l'ipocrisia imperante nel mondo dello spettacolo li avevano negli ultimi anni ghettizzati e fatti oggetto di ironie di bassa lega: chi li definiva ormai 'vegetali', chi rincoglioniti, chi addirittura con pessimo gusto si chiedeva se fossero ancora vivi... e i due toscanacci di San Miniato vivi lo erano eccome, e anche battaglieri: consapevoli di non aver più nulla da chiedere ad uno star-system che li emarginava, e (soprattutto) liberi da ogni vincolo contrattuale e commerciale, hanno continuato a fare cinema secondo i loro canoni, realizzando i film che preferivano e senza scendere a compromessi con nessuno. Così è nato Cesare deve morire: pellicola che nessuno voleva finanziare e nessuno voleva distribuire in sala. Ma dopo la standing-ovation e un quarto d'ora di applausi alla Berlinale, ecco che tutti sono tornati a salire sul carro dei vincitori...

Così va la vita. E noi siamo contenti comunque perchè Cesare deve morire è un film bello, poetico, coraggioso, emozionante: la storia di un gruppo di detenuti che si trasformano in attori per recitare il Giulio Cesare di Shakespeare è splendida e toccante: e poco importa se i 'puristi' non hanno ancora sciolto il dubbio se trattasi di fiction, documentario, metacinema, teatro filmato o quant'altro. Noi sappiamo che è un capolavoro, e questo ci basta. Anzi, no: dal momento che la Giuria dei David ha anche il compito di selezionare il titolo del film italiano da candidare ai prossimi Oscar, ci auguriamo che non ci sia alcun dubbio sulla scelta: i Taviani stra-meritano il biglietto per Hollywood, e speriamo che il loro film sia sostenuto a dovere da chi ha il compito di farlo.

Zhao Tao, miglior attrice per 'Io sono Li'
Detto dei vincitori, non si può non parlare anche degli sconfitti, che vanno chiamati con il loro nome: per Romanzo di una strage, Habemus Papam e This must be the place le cose non sono andate come sperato. Ha limitato i danni il film di Sorrentino, che si è aggiudicato anch'esso cinque statuette (seppure in categorie minori) e che sarà comunque distribuito negli States, mercato forse 'ideale' per una storia del genere. Marco Tullio Giordana si deve accontentare invece dei premi alla coppia di interpreti non protagonisti del suo film, i bravi Pierfrancesco Favino e Michela Cescon, che interpretano i coniugi Pinelli. Mentre l'immenso Michel Piccoli dà un contentino anche a Nanni Moretti, vincendo il David come miglior attore per Habemus Papam.  Grossa sorpresa invece tra le attrici protagonisti, dove trionfa la cinese Zhao Tao per il film Io sono Li di Cesare Segre, visto a Venezia.

Michel Piccoli, premiato per 'Habemus Papam'
Certo è curioso assistere alla vittoria di due attori protagonisti stranieri in una manifestazione che celebra il cinema italiano... ma sappiamo che nulla nasce per caso, e con questi premi la Giuria dei David sembra volerci mettere in guardia da un pericolo già da tempo 'segnalato' anche dalle colonne di questo minuscolo blog: il cinema nazionale, che ancora si difende e - anzi - può ancora annoverare fior di registi di tutte le fasce d'età, è clamorosamente carente in fatto di interpreti. Inutile nasconderlo: in Italia, tolti i 'soliti noti', vale a dire Lo Cascio, Servillo, Bentivoglio, Favino, la Buy, la Morante, la Golino e pochi altri, non abbiamo grandi attori di livello mondiale. Questo perchè il pubblico medio, ormai rincretinito dalle fiction televisive, vuole vedere sul grande schermo solo commedie, e anche poco impegnative. E per questi prodotti certo non occorrono doti recitative da Actor's Studio...

TUTTI I VINCITORI

martedì 1 maggio 2012

HUNGER GAMES

(id.)
di Gary Ross (USA, 2012)
con Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Woody Harrelson, Wes Bentley, Stanley Tucci, Lenny Kravitz, Donald Sutherland

Hunger Games è un film stupefacente: nel senso che stupisce, in relazione al tipo di film e al suo target,  per il modo in cui è stato realizzato e per quello che vuole comunicarci. Stupisce perchè è un prodotto commerciale al 100%, perchè si rivolge al pubblico giovane, perchè negli Stati Uniti ha avuto un successo a dir poco clamoroso e, soprattutto, perchè non è affatto stupido.

Già, per quanto sembri incredibile, a Hollywood si riesce ancora a fare intrattenimento intelligente, distribuendo nelle sale un prodotto che, qualitativamente e artisticamente parlando, è una spanna al di sopra di altre saghe stupidotte e insipide quali Twilight e Harry Potter. E la cosa ancora più sorprendente è che al pubblico americano è piaciuto alla grande, considerati i quasi 400 milioni di dollari                                 incassati in poco più di un mese.

Chi tra voi ha letto l'omonimo libro di Suzanne Collins, uscito un paio d'anni fa (e passato quasi inosservato da noi) sa già di cosa si parla: Hunger Games è un gigantesco reality show, ambientato un futuro non troppo remoto, dove i partecipanti sono adolescenti estratti a sorte e il loro premio è la vita stessa. Solo uno di loro, il vincitore, sopravviverà, non prima di aver sterminato tutti gli altri ed aver superato ogni tipo di ostacolo posto ad arte dalla produzione. Lo scopo dei giochi è quello di avvertire il popolo-succube che non ha alcuna possibilità di ribellarsi alla dittatura che opprime il pianeta Panem: i concorrenti sono infatti considerati 'tributi' alla memoria della ribellione soffocata dal regime oltre settant'anni prima, e che viene rievocata ogni anno.

Non è difficile vedere in questa trama una spietata critica alla società moderna, basata sull'apparenza e sul rincoglionimento mediatico: il 'gioco' è presentato infatti come un Grande Fratello portato alle estreme conseguenze, dove il pubblico segue in televisione il massacro dei ragazzi sgranocchiando pop-corn e facendo commenti sui vestiti delle 'star'. E nessuno, ovviamente, pensa alla rivoluzione... tutti sono 'anestetizzati' a dovere, e il messaggio che passa allo spettatore è oltremodo chiaro... lo stesso che altri film come The Truman Show, Rollerball, e perfino 1984 ci avevano già preavvisato.

Questo per dirvi che Hunger Games non è certo una pellicola originale. Lo stesso regista è quel Gary Ross che già dodici anni fa con Pleasantville cercava garbatamente di avvertirci della falsità del mezzo televisivo. Però Hunger Games è un film solido, tecnicamente valido, curatissimo nei particolari e, a differenza delle saghe adolescenziali sopra citate, con un bel cast di interpreti di ottimo livello: la splendida protagonista, Jennifer Lawrence, è un'attrice coi controfiocchi (la ricordate? L'abbiamo vista in The Burning Plain, Un gelido inverno, X-Men l'inizio e Mr. Beaver), che per questo ruolo si è 'appesantita' e irrobustita nel fisico, ed è contornata da uno stuolo di illustri comprimari quali Woody Harrelson, Stanley Tucci, Wes Bentley e l'eterno 'cattivo' Donald Sutherland.

Il film è bellissimo nella parte iniziale, piuttosto lunga e poco 'movimentata', dove viene descritta bene la realtà sociale del pianeta e la fase di preparazione ai giochi, mostrandoci la parte peggiore di una società ormai votata esclusivamente al consumismo e alla rimozione di qualsiasi forma di solidarietà e senso civico. Peccato però che poi deluda abbastanza proprio nelle sequenze di azione e nello svolgimento dei giochi stessi, stemperando molto (per motivi ovviamente commerciali) le sequenze violente e banalizzando un finale che è fatto apposta per promettere l'inevitabile sequel (questo è infatti il primo di tre romanzi sul tema). Nonostante questo, però, a noi Hunger Games è piaciuto: per la Hollywood di questi tempi è grasso che cola...