domenica 30 ottobre 2011

DA 'FESTA' a 'FESTIVAL', IL PASSO E' BREVE...


Diversi lettori di questo blog mi chiedono perchè non parlo mai del Festival di Roma, che è in pieno svolgimento in questi giorni. I motivi sono più d'uno: intanto, perchè non ci sono mai stato. Poi, perchè di lavoro (purtroppo) non faccio il critico cinematografico, e non posso prendere tutte le ferie a mio piacimento. Infine, cosa più importante, perchè stringi stringi... proprio non riesco ad appassionarmi alla rassegna capitolina.

Strana manifestazione, infatti, quella romana. Nata sei anni orsono per uno sfizio di Walter Veltroni, il politico più cinefilo della storia repubblicana (più cinefilo che politico secondo alcuni, ma questo non c'interessa...), la Festa del Cinema (all'inizio si chiamava così) doveva essere nelle intenzioni del suo creatore una specie di 'happening' gioioso e gioviale, assolutamente non competitivo, fatto per un pubblico di appassionati (ma non elitario), e costituire una vetrina di lancio soprattutto per il cinema di casa nostra. Solo che tra il dire e il fare... ci sono sempre di mezzo i quattrini! Tradotto: gli sponsor non vedevano di buon occhio una rassegna non competitiva, in quanto il Concorso è il sale di ogni Festival , e allora ecco che la 'creatura' veltroniana si trasforma ben presto in un qualcosa di poco 'conviviale' e invece molto più 'ufficiale'.


La Festa di Roma infatti istituisce il suo bel primo premio (il Marco Aurelio d'Oro), una moltitudine di sezioni collaterali, stringe accordi col Tribeca Film Festival di De Niro per assicurarsi titoli americani di grande richiamo, organizza spazi, incontri, dibattiti, eventi mondani come ogni Festival che si rispetti. Logico dunque che, magari anche in buona fede, il Festival capitolino irrompa a gamba tesa nei rapporti con la Mostra di Venezia, la più antica rassegna cinematografica del mondo, suscitando un vespaio di polemiche e rivalità da osteria con gli organizzatori lagunari, vuoi anche per il periodo di svolgimento scelto da Veltroni, vale a dire fine ottobre-inizio novembre: a poco più di un mese, dunque, dalla fine della Mostra. Ed ecco quindi scatenarsi furibonde guerre intestine (ben poco 'onorevoli', per la verità) per accaparrarsi questo o quel film, questo o quel divo e, soprattutto, i fondi pubblici a disposizione.

Nel frattempo però accadono altri fatti: Veltroni si dimette da sindaco per sfidare Berlusconi alle politiche del 2008 (sappiamo com'è finita). Il suo successore 'designato', Francesco Rutelli, perde rovinosamente contro Gianni Alemanno la sfida per il Campidoglio,  relegando così la 'patata bollente' nelle mani dell'ex-delfino di Gianfranco Fini. Alemanno, dal canto suo, dimostra di gradire la manifestazione quanto il cavolo a merenda, e cerca apertamente di 'smarcarsene'. Ma non  è facile, anche per assurde e medievali dispute di 'campanile' con i ministri del 'nord' (Zaia e Galan in primis). E allora ecco materializzarsi la svolta ' a destra': pur con un robusto taglio ai finanziamenti pubblici, la rassegna sopravvive. Da 'Festa' si trasforma in 'Festival' (a rimarcare la 'serietà' della cosa) e  la direzione artistica viene affidata al novantenne (!) Gian Luigi Rondi che sceglie Piera Detassis, direttrice di Ciak, come 'coordinatrice' della manifestazione.

Perchè vi ho parlato di tutto questo? Per farvi capire come il Festival di Roma sia più che altro un 'compromesso' tra gestioni, una cosa 'ibrida' e poco definita, nè carne nè pesce, che non sa ancora bene dove andrà a parare in futuro. Vorrebbe essere, come detto, un festival più snello e meno 'ufficiale, ma alla fine la struttura è pachidermica quanto quelle di Venezia e Cannes. Vorrebbe essere una rassegna a favore del nostro cinema, ma alla fine il business (leggi i grandi distributori americani) lascia ben poco spazio ai selezionatori, vorrebbe proporre un cartellone che unisca cinema commerciale di qualità e cinema d'autore, ma la bilancia (ahimè) è spesso sbilanciata a favore del primo (pur con ottime scelte: da Roma sono passati, tanto per fare degli esempi, film come The Prestige, The departed, Into the Wild, Juno, I ragazzi stanno bene, The social network). Vorrebbe, infine, seppur sommessamente, confrontarsi con i grandi festival, ma il livello del concorso è, almeno in queste prime edizioni, abbastanza scadente (nonostante ottime eccezioni come L'uomo che verrà, In un mondo migliore, Brotherhood).

Insomma, un Festival che deve decidere cosa fare 'da grande': se, cioè, sfidare apertamente i propri concorrenti più prestigiosi (a suon di diplomazia e tanti, tanti soldi) oppure restare una kermesse di medio interesse, piuttosto commerciale, ad uso e consumo del pubblico mediamente giovane e meno 'smaliziato'. Noi, dal canto nostro, provvederemo a proporre e recensire quanto di buono vi uscirà, pur senza tuffarci nella 'movida' capitolina. Le 'vacanze romane' non sono ancora cominciate...     

martedì 25 ottobre 2011

BAR SPORT (Italia, 2011) di Massimo Martelli


Avviso ai naviganti: questa recensione è scritta a puro uso e consumo di chi va verso i fatidici 'anta'... astenersi perditempo! E, badate, non è questione di nostalgia: voglio semplicemente avvertirvi che le righe che seguiranno risulteranno pressochè ìncomprensibili ai ventenni di oggi, quelli che frequentano i 'lounge' bar, gli 'snack' bar, gli 'american' bar, gli 'Hard Rock cafè', e magari si alzano tardi per il rito del 'brunch'. Come difficilmente diranno qualcosa ai trentenni rampanti che ogni sera, immancabilmente, si radunano per il rito dell'aperitivo presso il 'bistrot' di turno...

Una volta, invece, si andava semplicemente al Bar Sport. E chi comincia ad avere qualche capello bianco in testa  sa di cosa parlo: di quel locale tutto sommato anonimo, spartano, composto da un bancone, qualche tavolino, la televisione e gli accessori 'indispensabili': il calciobalilla, il flipper, il biliardo. In quel luogo apparentemente 'inospitale', in mezzo a una spessa coltre di fumo (ai tempi le sigarette non facevano male...) si radunava l'intera 'tribù' del quartiere: il Bar Sport era il luogo di aggregazione per eccellenza e non di puro consumo come oggi (giusto o sbagliato che sia), popolato da una 'fauna' tutto sommato eterogenea con qualche personaggio 'di spicco', capace di restare stampato nella memoria degli avventori...

In ogni bar, infatti, c'era un 'tennico' che sapeva tutto di tutti e parlava di tutto con tutti (eh,già!). Oppure il classico 'playboy' che 'le raccattava tutte lui' (a parole...), o la bellona procace che faceva sbavare i maschietti, per non parlare della barista dalle grandi tette, fino al massimo esperto di calcio, totocalcio e affini, che raccoglieva le quote per la schedina... Il Bar Sport era un microcosmo, una comunità fatta di persone profondamente diverse e più o meno 'pittoresche', ma innegabilmente affascinanti. Di questo piccolo universo parlò, ormai trentacinque anni fa, lo scrittore bolognese Stefano Benni, ricavandone il più grande successo della sua fortunata carriera.

La 'mitica' Luisona
Oggi, quasi quattro lustri più tardi, Bar Sport arriva al cinema e, ovviamente, come sempre in questi casi, ci si chiede se un'operazione del genere era necessaria. Beh, magari no. O forse sì... chi può dirlo? Dipende dalla sensibilità di chi guarda e, appunto, dall'età.  Però va detto che il film di Massimo Martelli riesce ad instaurare una piacevole complicità con lo spettatore, facendogli scattare dentro quella 'nostalgia canaglia' che lo cattura e riesce a farglielo amare. Bar Sport è un film malin-coMico, dove un manipolo di attori bravissimi (Bisio e Battiston su tutti) costruiscono una serie di sketch che, pur non legandosi tutti benissimo tra loro, 'centrano' il bersaglio più importante: quello di rispettare lo spirito del libro e la dissacratoria ironia di fondo. Bellissimi i piccoli effetti visivi, fondamentali per ricreare certe scene, e azzeccata l'idea dei 'siparietti' animati per riprodurre le parti più grottesche.

Un film fedele dunque, forse fin troppo, al testo letterario. Del resto non c'era motivo di stravolgere un libro che già 'funzionava' di suo: il film di Martelli nè è la miglior 'copia conforme' possibile. Non brillerà di fantasia, ma piacerà a quel pubblico di quarantenni che, potete starne certi, difficilmente non verseranno qualche lacrimuccia di nostalgia...

VOTO: ***
 

domenica 16 ottobre 2011

THIS MUST BE THE PLACE (Italia, 2011) di Paolo Sorrentino

Paolo Sorrentino è un uomo coraggioso, questo  nessuno lo può negare. Siamo onesti: quanti registi italiani di oggi avrebbero il coraggio di realizzare un film come This must be the place, anche avendo a disposizione una star come Sean Penn? Sorrentino è il nostro unico regista di respiro internazionale, il solo capace di realizzare film che sappiano attirare il pubblico anche oltre la dogana di Chiasso, e dobbiamo rendergliene merito. This must be the place è un film che, aldilà dell'aspetto strettamente artistico (forse non eccelso, e vedremo perchè) può essere visto, capito e apprezzato a tutte le latitudini: e va dato atto al suo regista di averlo saputo dirigere senza rinnegare (in nome di Hollywood) il suo talento visionario e l'innata capacità di costruire personaggi stravaganti e sempre memorabili.

Eve Hewson, figlia di Bono Vox  
Lo erano, infatti, sia l'Antonio Pisapia de L'Uomo in più che il Titta de Girolamo de Le conseguenze dell'amore, per non parlare del... mefistofelico Giulio Andreotti ne Il divo. E certamente ci ricorderemo a lungo anche dello stralunato Cheyenne, goffa rockstar in disarmo, che fa la spesa al supermercato vestito come fosse ancora sul palco, e che vive fuori dal tempo e dagli schemi nella sua lussuosa villa dublinese, accudito e sopportato da trent'anni da una moglie capace di amarlo ancora,e che di mestiere fa la vigile del fuoco (!) Merito anche, ovviamente, di uno straordinario Sean Penn, attore immenso, capace di rendere 'vero' perfino un personaggio che più caricaturale non si può, mostrando una fisicità impressionante e, nel contempo, una grande umanità.

Il regista Paolo Sorrentino
Ci voleva coraggio, insisto, nel provare a raccontare in maniera credibile una storia così strampalata: quella che vede un artista in declino e sull'orlo della depressione mettersi alla ricerca di un criminale nazista che ha umiliato in guerra il padre morente... Sorrentino cerca di farlo affidandosi alla struttura sempre fascinosa (ma anche insidiosa) del road-movie, abbandonandosi ad immagini contemplative di rara bellezza e alla dimensione sognatrice di un'America da cartolina, fatta di grandi spazi, paesaggi mozzafiato, percorsi rurali e lunghe distanze, il tutto accompagnato dalle musiche nostalgiche e psichedeliche dei Talking Heads (il cui leader David Byrne compare svariate volte nel film, impersonando se stesso e suonando fino allo sfinimento la canzone che dà il titolo alla pellicola).  E' impossibile vedendo queste scene non rievocare altre pellicole 'sacre' del genere come Paris, Texas di Wenders e, soprattutto, il lynciano Una storia vera. Stesso sguardo, quello di Sorrentino, ovvero lo sguardo incantato e sognatore, quasi 'ingenuo' e tipicamente europeo, di chi  va alla scoperta del 'nuovomondo'.

Frances McDormand
Però i meriti del film finiscono qui. Perchè bisogna ammettere che This must be the place, una volta 'depurato' dell'aspetto scenografico ed emotivo, si presenta abbastanza 'nudo alla meta', pieno di difetti evidenti: la storia è piuttosto banale, già vista, molte situazioni non sono del tutto chiare e certi personaggi sono poco funzionali alla trama, finendo per creare più confusione che intrigo. Le due parti (quella 'irlandese' e quella 'americana') sono piuttosto slegate tra loro, quasi fossero due film diversi: molto 'nevrotica' e sconclusionata la prima, decisamente più fluida (ma assolutamente più convenzionale) la seconda.
Alla fine però l'elemento che più 'disturba' in questo film è la sensazione, abbastanza sgradevole direi, che l'Olocausto diventi quasi un 'pretesto' per imbastire un normalissimo road-movie sull'America 'che piace a noi',  fatto di luoghi comuni e canzoncine anni '80. Lungi da me essere moralista o 'politicamente corretto', ma sarei disonesto se non ammettessi questo disagio. Ma, aldilà di questo, This must be the place si dimostra comunque, nella migliore delle ipotesi, un film molto 'formale' e di poca sostanza. E quasi mai la 'confezione', pur se deluxe, fa gridare al capolavoro.

VOTO: ***

venerdì 14 ottobre 2011

THIS IS ENGLAND (GB, 2006) di Shane Meadows


Nottingham, 1983. L'Inghilterra è in guerra con l'Argentina per le Isole Falklands, ma negli squallidi sobborghi della cittadina di Robin Hood e Brian Clough in pochi se ne accorgono... perchè la guerra 'vera' è lì: è quella per sopravvivere ogni giorno in un tessuto sociale fatto di miseria e sfruttamento, segno tangibile del potere tatcheriano e della sconfitta del proletariato. Solo un paio di persone non riescono, loro malgrado, a rimanere indifferenti di fronte al conflitto: sono un ragazzino dodicenne, solo, disadattato e deriso dai compagni, e la propria mamma: entrambi hanno perso il capofamiglia, caduto in battaglia a migliaia di chilometri di distanza. E il dolore per questa tragedia rappresenta, simbolicamente, l'insensibilità di una nazione nei confronti del proprio popolo (che non esita, amaramente, a gettare in mare la gloriosa bandiera di San Giorgio, vessillo di una gloria passata che ormai stride impietosamente col difficile presente).

L'Inghilterra in cui 'sopravvive' Shaun (questo il nome del ragazzo) è fatta di grigi palazzi senz'anima, luridi centri commerciali, pomeriggi trascorsi nell'apatia più totale, in uno straordinario spaccato neo-realista che il regista Shane Meadows ci sbatte violentemente in faccia, senza preamboli ma anche con tanta, tanta ironia di fondo, costruendo un film durissimo eppure davvero molto divertente, scanzonato e tragico nello stesso tempo. Un film che senz'altro sarà piaciuto al vecchio 'maestro' Ken Loach, che di sicuro lo avrà visto con invidia... più che altro per la grande abilità di Meadows nel mostrarci, senza paura e senza alcuna indulgenza, quanto possa essere facile in un contesto del genere manipolare la gente 'indignata' (parola purtroppo - ancora - decisamente di moda) e inevitabilmente ingenua, spingendola senza fatica verso derive oltranziste che noi 'piccolo-borghesi' fatichiamo (per finta) a capire.

Shaun, infatti, lenisce la sua disperazione e la sua solitudine frequentando un gruppo di skinheads, finendo ben presto per esserne 'adottato'. Il motivo è evidente: quelle persone, così 'diverse', così 'alternative', così 'fuori dagli schemi' sono anch'esse delle 'mosche bianche' in un mondo che non le vuole e non le capisce, esattamente come il giovane protagonista del film. Attenzione pero! La parola 'skinheads' oggi è segno di violenza, razzismo, xenofobia, rabbia, odio... ma This is England ci dimostra che tutto questo è l'effetto e non la causa di un disagio sociale le cui radici nulla hanno a che vedere con la cultura skinhead. Gli amici di Shaun, infatti, almeno agli inizi non sono affatto violenti. Sono semplicemente 'diversi', e non sono per nulla arrabbiati col 'sistema': ne subiscono, semmai, gli effetti negativi. Sarà l'arrivo di un folle e nevrotico ex-galeotto, fascinoso rappresentante del Male, che destabilizzerà la comitiva indirizzandola verso binari pericolosi, sfruttando il terreno fertile della sottocultura proletaria.

Sotto questo aspetto, This is England ci ricorda neanche troppo velatamente un altro grande film di qualche anno fa: parliamo de Il nastro bianco di Michael Haneke, sconvolgente parabola sulle origini del nazismo. Il messaggio del regista è evidente: esattamente come allora, le condizioni che portano alla genesi di rigurgiti nazionalisti e xenofobi sono sempre le stesse: miseria, ignoranza, frustrazione, impotenza, senso di abbandono da parte delle Istituzioni. This is England, oltre che una splendida pellicola 'politica', è anche uno spietato ritratto della cattiveria e della stupidità umana, che parla allo spettatore nello stesso linguaggio dei bassifondi di Nottingham: poche parole, dure, amare, pronunciate con la pancia prima che con la testa. E' un film di cinque anni fa, miracolosamente (e finalmente!) arrivato anche nelle nostre sale. E ci parla di una vicenda di quasi trent'anni fa, che è ancora tristemente attualissima. Per questo, e per molti altri motivi, vi conviene vederlo al cinema o in dvd. Perchè la Storia è sempre uguale, e guai a non trarne conclusioni.

VOTO: *****   

venerdì 7 ottobre 2011

LA NOTTE E LA CITTA'

Chi di voi, almeno una volta, non ha assaporato il gusto di guidare nella notte, su strade deserte, con luci, suoni, odori in sottofondo... guidare senza meta, magari con la radio accesa, sintonizzata sulla stazione 'giusta', senza voler mai smettere. Senza fermarsi, per non far svanire l'incantesimo...

1. AMERICAN GRAFFITI (G. Lucas, 1973)
Una Ford Thunderbird bianca sfreccia nella notte losangelina. Tra le parole di Lupo Solitario e una generazione che se ne va.




2. TAXI DRIVER (M. Scorsese, 1976)
Guidare per lenire la solitudine, le luci di New York che fanno da sfondo al vuoto degli affetti.







3. I PADRONI DELLA NOTTE (J. Gray, 2007)
Strade che si dividono, nella notte di Brooklyn e nella vita di due fratelli.











4. AL DI LA' DELLA VITA (M. Scorsese, 1999)
Tre giorni (anzi, tre notti) nella vita di Frank Pierce: guidare per scacciare il rimorso, l'ossessione di ciò che poteva esser fatto...






5. MIAMI VICE (M. Mann, 2006)
Scende la notte su Miami, e con essa la disillusione e il marcio di una società 'drogata'. Gli sguardi rubati di Gong Li sono lì a dimostrarcelo.







6. COLLATERAL (M. Mann, 2004)
Ancora Mann, inevitabile. Nel suo film più incredibilmente fascinoso e definitivo. Atmosfere spiazzanti in una Los Angeles notturna, dalle luci opache e con i coyote che attraversano la strada. Normale.






7. DRIVE (N. Winding Refn, 2011)
Ancora la notte: malinconica, infinita, catartica...

domenica 2 ottobre 2011

DRIVE (USA, 2011) di Nicolas Winding Refn

Certe volte Hollywood fa bene ai registi europei... di solito è il contrario, ma nel caso di Nicolas Winding Refn è una piacevole eccezione. Avevamo lasciato il regista danese (ma cresciuto a New York) alla Mostra di Venezia di due anni fa col cupo e noiosissimo Valhalla Rising, una specie di fantasy-horror girato tra le brume scozzesi, passato in silenzio fra gli sbadigli dei presenti, e lo ritroviamo invece a Cannes con una produzione americana che, è bene dirlo subito, lascia stupefatti per ambientazione e coinvolgimento.

Mai sottovalutare le conseguenze dell'amore, diceva qualche anno fa Titta de Girolamo, alias Toni Servillo, nell'omonimo film di Sorrentino. E la stessa regola vige anche oltreoceano: se ne accorgerà, a sue spese, il giovane e silenzioso protagonista di Drive, un ragazzo taciturno e senza nome che metterà a repentaglio la sua vita fatta di espedienti per mettere in salvo la bella e ingenua vicina di casa (di cui si è invaghito profondamente) cacciatasi in un bel guaio a causa del marito scapestrato.

Ryan Gosling
Drive è fondamentalmente un noir romantico, che si ispira neanche troppo di nascosto ai grandi classici del passato: le solitarie corse in macchina del protagonista, spinto da un'irrefrenabile sete di vendetta e giustizia (due cose che non stanno proprio bene insieme) non possono non ricordarci il DeNiro di Taxi Driver. Allo stesso modo la fascinosa ambientazione notturna, in una Los Angeles per niente 'angelica', evoca in maniera fin troppo evidente la cinematografia di Michael Mann a cui, ne siamo sicuri, questo film sarà piaciuto parecchio. La bellezza di Drive, infatti, esattamente come nei film di Mann, non sta tanto nella trama (abbastanza prevedibile) quanto nella confezione 'deluxe' e nella capacità dei personaggi di emozionare lo spettatore con la loro presenza, la loro fisicità e il loro lato umano.

Ryan Gosling e Nicolas Wending Refn
Certe volte non occorre infatti una sceneggiatura di ferro per scaldare i cuori di chi guarda. E' sufficiente un cast coi fiocchi con attori in stato di grazia: Ryan Gosling è clamorosamente bravo nel ruolo del protagonista solitario, eroe inconsapevole, delinquentello di professione e killer per amore... quell'amore che sconvolgerà la propria vita e lo obbligherà a cacciarsi in una situazione più grande di lui, che inevitabilmente gli sfuggirà di mano. Gosling (che ha voluto a tutti i costi la parte) pur parlando pochissimo riesce con il proprio sguardo e il proprio corpo a costruire un personaggio affascinante, disperato, disilluso, di cui è davvero facile 'innamorarsi' (e, scommetto, per le donne in senso non solo 'figurato'). Carey Mulligan, allo stesso modo, è semplicemente perfetta nell'impersonare una giovane donna fragile, tenera e provata da una vita che non ha scelto.

Carey Mulligan
E poi, ovviamente, diamo anche al regista i propri meriti: Drive è stato premiato a Cannes proprio per la regia, e dobbiamo dire che certe sequenze lasciano stupefatti per la capacità di Winding Refn di 'saltare' da una situazione all'altra con virtuosismi di macchina degni... proprio del miglior Michael Mann (ebbene sì, ancora!). Basti pensare, ad esempio, alla sequenza dell'ascensore (da togliere il fiato per suspance e 'disagio' emotivo), oppure al folgorante incipit che fa da preludio alla storia vera e propria (i titoli di testa arrivano solo dopo dieci minuti). Ma, fondamentalmente, la bellezza di Drive sta nella messinscena generale, in grado di far percepire allo spettatore, fin dall'inizio, l'atmosfera malinconica e catartica del film. In tutto questo un ruolo fondamentale è dovuto alla partitura musicale di Cliff Martinez, che miscela con grande disinvoltura ed effetto suggestioni musicali stile anni 70-80, davvero riuscitissime.

VOTO: ****