Si sentivano già, all'uscita dalla sala, i commenti dei delusi. “Sofia Coppola fa sempre lo stesso film”, era la frase più ricorrente. E allora? Lo dicono anche di Clint Eastwood e Ken Loach, e loro giustamente se ne fregano. Da anni.
Non c'è niente di male a ripetersi, purchè lo si faccia in maniera intelligente e avendo rispetto per lo spettatore. Ognuno di noi ha le proprie regole di vita, i propri convincimenti, i propri dubbi e le proprie piccole fisime, spesso ancestrali e ricorrenti, che magari cerchiamo di esorcizzare raccontandole ogni volta a chi ci sta vicino, come per scacciarle il più lontano possibile.
Somewhere è ancora un film sulla solitudine, argomento caro alla regista e ormai innegabilmente autobiografico. E nel personaggio della dolcissima Elle Fanning (che brava! altro che l'insopportabile sorellina Dakota!!!) è fin troppo facile riconoscere la piccola Sofia, sballottata da un set all'altro, durante l'infanzia, da un padre forse troppo famoso e troppo occupato per essere anche “presente”.
La Fanning interpreta Clèo, figlia undicenne della star hollywodiana Johnny Marco (un convincente Stephen Dorff), che un giorno entra di forza nella vita del padre bolso e vitellone, in quanto la madre (separata) ha deciso di prendersi “del tempo per pensare”... il problema è che Johnny Marco non ha una vita propria, è una vittima consapevole e cosciente dello star system: vive in un albergo di lusso, gira in Ferrari, trascorre le sue giornate tra sesso, droga e videogames. Ma ormai nemmeno queste fanno più effetto: una notte lo vediamo togliere le mutandine alla starlette di turno, capitata nel suo letto, e addormentarsi miseramente. La sua esistenza, depurata dalla mondanità, si riduce al vuoto pneumatico e alla grettezza di una vita senza affetti e senza interessi.
A sorpresa, però, l'arrivo della figlia non “destabilizza” Johnny, anzi: gli offre una nuova ragione di vita, lo responsabilizza, lo aiuta a riallacciare i fili con quel mondo che credeva di avere lasciato per sempre fuori dalla sua suite. E scoprirà, amaramente, che non è facile diventare “adulto”.
Somewhere è una pellicola delicata, minimalista ed eterea. La regista, come sempre, lavora per sottrazione e cerca di entrare nei nostri cuori in punta di piedi, riuscendoci. E' l'ormai sperimentato “tocco di Sofia”, che tanto piace ai propri fan così come fa imbufalire i propri detrattori, che la accusano di essere “superficiale” e inconcludente. Ma basta vedere la scena, ormai famosa, della “consegna dei Telegatti” per capire la genialità di questa talentuosa figlia d'arte che, con grazia e disincanto, riesce a mostrare l'orrore della nostra tv senza scadere nella volgarità più bieca. Una sequenza straordinaria e terrificante, che serve più di mille film come “Videocracy” a farci vergognare.
Ma, aldilà delle apparenze e della “carineria” della confezione, va detto che Somewhere è un film triste e dolente. Non possiede la meraviglia e la leggiadria di Marie Antoinette, né la poesia di Lost in Translation: è un affresco disperato e disumano di una società che va disgregandosi nelle mani del dio denaro, entità diabolica che fagocita e tritura ogni sentimento e passione. Senza rendersi conto, in fondo, che la salvezza è a un passo. Lì, “da qualche parte...”
Non c'è niente di male a ripetersi, purchè lo si faccia in maniera intelligente e avendo rispetto per lo spettatore. Ognuno di noi ha le proprie regole di vita, i propri convincimenti, i propri dubbi e le proprie piccole fisime, spesso ancestrali e ricorrenti, che magari cerchiamo di esorcizzare raccontandole ogni volta a chi ci sta vicino, come per scacciarle il più lontano possibile.
Somewhere è ancora un film sulla solitudine, argomento caro alla regista e ormai innegabilmente autobiografico. E nel personaggio della dolcissima Elle Fanning (che brava! altro che l'insopportabile sorellina Dakota!!!) è fin troppo facile riconoscere la piccola Sofia, sballottata da un set all'altro, durante l'infanzia, da un padre forse troppo famoso e troppo occupato per essere anche “presente”.
La Fanning interpreta Clèo, figlia undicenne della star hollywodiana Johnny Marco (un convincente Stephen Dorff), che un giorno entra di forza nella vita del padre bolso e vitellone, in quanto la madre (separata) ha deciso di prendersi “del tempo per pensare”... il problema è che Johnny Marco non ha una vita propria, è una vittima consapevole e cosciente dello star system: vive in un albergo di lusso, gira in Ferrari, trascorre le sue giornate tra sesso, droga e videogames. Ma ormai nemmeno queste fanno più effetto: una notte lo vediamo togliere le mutandine alla starlette di turno, capitata nel suo letto, e addormentarsi miseramente. La sua esistenza, depurata dalla mondanità, si riduce al vuoto pneumatico e alla grettezza di una vita senza affetti e senza interessi.
A sorpresa, però, l'arrivo della figlia non “destabilizza” Johnny, anzi: gli offre una nuova ragione di vita, lo responsabilizza, lo aiuta a riallacciare i fili con quel mondo che credeva di avere lasciato per sempre fuori dalla sua suite. E scoprirà, amaramente, che non è facile diventare “adulto”.
Somewhere è una pellicola delicata, minimalista ed eterea. La regista, come sempre, lavora per sottrazione e cerca di entrare nei nostri cuori in punta di piedi, riuscendoci. E' l'ormai sperimentato “tocco di Sofia”, che tanto piace ai propri fan così come fa imbufalire i propri detrattori, che la accusano di essere “superficiale” e inconcludente. Ma basta vedere la scena, ormai famosa, della “consegna dei Telegatti” per capire la genialità di questa talentuosa figlia d'arte che, con grazia e disincanto, riesce a mostrare l'orrore della nostra tv senza scadere nella volgarità più bieca. Una sequenza straordinaria e terrificante, che serve più di mille film come “Videocracy” a farci vergognare.
Ma, aldilà delle apparenze e della “carineria” della confezione, va detto che Somewhere è un film triste e dolente. Non possiede la meraviglia e la leggiadria di Marie Antoinette, né la poesia di Lost in Translation: è un affresco disperato e disumano di una società che va disgregandosi nelle mani del dio denaro, entità diabolica che fagocita e tritura ogni sentimento e passione. Senza rendersi conto, in fondo, che la salvezza è a un passo. Lì, “da qualche parte...”
VOTO: * * * *
film triste e dolente?...io l'ho trovato di una noia abissale, vuoto e inconcludente dalla prima all'ultima scena...
RispondiEliminanon capisco gli elogi o le critiche: è un film sul nulla che comunica zero, recitato senza sussulti e che annoia in maniera terribile (se comincio a vedere un film mi dà fastidio abbandonarlo anche quando è un obbrobrio totale ma in questo caso è stata durissima resistere)..
uno dei mali del cinema è non avere rispetto per cosa si fa e per chi la guarderà... questo film ne è la dimostrazione