"In questo film la prigione è una metafora della Francia. Con questo non voglio dire che essere liberi o carcerati è la stessa cosa. Voglio dire che in prigione si ricreano, esasperati, i meccanismi sociali, psicologici, etnici, religiosi, di classe che condizionano la nostra vita sociale..." Parole di Jacques Audiard, regista di questo Il Profeta, filmone presentato a Cannes (dove ha vinto il Gran Premio della Giuria), trionfatore assoluto ai recenti Cesar e ora, finalmente, approdato anche nelle nostre sale. Beh, diciamo subito che i francesi con le metafore ultimamente ci sono un po' fissati: l'anno scorso fu la volta del sopravvalutatissimo e stereotipato La Classe di Cantet, che sfruttava l'universo scolastico come spaccato di una società ormai irrimediabilmente multirazziale. Questa volta tocca al talentuoso Audiard cimentarsi col difficile tema dell'integrazione in uno dei paesi più multietnici d'Europa, e stavolta il registro utilizzato è quello del thriller carcerario: il giovane Malik, immigrato magrebino solo e disperato, finisce in carcere per una stupidata e viene subito catapultato all'inferno. Analfabeta, taciturno, senza amici nè famiglia, vessato dagli altri detenuti, il ragazzo non sopravviverebbe se il bandito corso Luciani, delinquente incallito, non lo "assumesse" sotto la sua protezione, prima sfruttandolo come servo e poi, piano piano, dandogli consigli di sopravvivenza sulla vita da dietro le sbarre: inutile dire che Malik imparerà molto in fretta la lezione, diventando lui stesso a sua volta uno spietato boss che poi, ovviamente, finirà con lo scontrarsi contro il suo vecchio "mentore"... Come si vede, la trama non brilla certo per originalità, come del resto anche l'aspetto "metaforico" della pellicola, piuttosto scontato: le parole di Audiard oltre che per la Francia potrebbero andare bene per mille altre situazioni (un esempio? gli stadi di calcio) e mille altri luoghi. Difficile quindi trovare spunti di dibattito che non siano già stati affrontati in almeno un altro centinaio di film sullo stesso tema... è proprio il caso di dirlo: il dibattito no! Semplicemente, è inutile.
Tuttavia, sfrondato dall'aspetto filosofico e sociologico, bisogna dire che Il Profeta è un ottimo film di genere (carcerario, appunto) che merita sicuramente la visione: è la cronaca di una metamorfosi (violenta) di una pagliuzza che si trasforma in un tronco di rovere pronto anche a far male, se necessario, pur di garantirsi rispetto e deferenza. Il tutto in una drammatica escalation di violenza e paura che coinvolge lo spettatore mettendolo anche a dura prova per tensione e ritmo. Certe scene, girate in presa diretta e con notevoli virtuosismi di macchina, fanno serrare le palpebre per la loro durezza e il loro pathos, decisamente impreziosite dalla recitazione in stato di grazia degli interpreti, tutti davvero bravissimi. Forse non saremo ai livelli del grandioso L'ultima missione di Marschal, per capirci, ma la regia asciutta, essenziale, senza fronzoli (lo diciamo? Alla Eastwood!!) di Audiard ci regala due ore e mezza di ottimo cinema.
VOTO: * * *
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